Il mese di marzo è stato piuttosto movimentato sul fronte dellatutela del whistleblower, espressione inglese che indica chi, in riferimento al proprio rapporto di lavoro, segnala illegalità (o rischi di illegalità) oppure irregolarità tanto nell’ambito pubblico quanto in quello privato.
Infatti, nei giorni 23 e 24 si è tenuta a Roma l’ottava assemblea di Neiwa (Network of European Integrity and Whistleblowing Authorities), la rete di autorità pubbliche che negli Stati membri dell’Unione europea presidiano il settore, a dirigere la quale è stata ora designata la nostra Anac. Il 30 marzo è poi il giorno dell’entrata in vigore del decreto legislativo 10 marzo 2023, n. 24, attraverso il quale l’Italia – con un ritardo di un anno e mezzo sul termine prescritto – ha finalmente recepito la direttiva 2019/1937 dell’Unione europea, che detta una disciplina a tutela del whistleblower il quale specificamente segnali violazioni del diritto europeo. Vien così meno il ricorso con cui il 15 febbraio scorso la Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen aveva portato l’Italia (insieme ad altri sette Stati) di fronte alle Corte di giustizia Ue per non aver comunicato nei tempi prescritti (cioè entro il 17 dicembre 2021) l’adozione delle misure nazionali di attuazione. Cionondimeno resta aperta la possibilità che la Commissione apra un nuovo procedimento di infrazione, se valuterà che non vi è conformità fra quanto disposto dalla direttiva e i contenuti del decreto legislativo di sua attuazione. E criticità sicuramente emergono.
Un avvertimento tempestivo potrebbe esser utile al Legislatore italiano per ripensare alle regole appena introdotte e così evitare non tanto (ma anche) censure europee, quanto pregiudizi che la normativa claudicante vigente appare capace di portare alle persone che meritoriamente si espongono – segnalando – a favore dell’integrità dell’ente cui appartengono. Proprio sulla condizione personale di costoro si vuol qui ragionare.
Anzitutto, per meglio inquadrare le questioni, chiediamoci il perché del ritardo italiano nell’adempimento alle regole europee in discussione, benché un previgente sistema nazionale di protezione del segnalante sia stato reputato (dai valutatori internazionali, da altri ordinamenti giuridici statali che l’hanno preso a modello, dai più autorevoli commentatori) all’avanguardia grazie alla disciplina posta con la legge n. 179/2017, legge che la nuova normativa viene a sostituire nelle suoi diversi ambiti di disciplina per tappe successive (la prima a decorrere dal 15/7/2023 con riferimento al settore privato, la seconda dal 17/12/2023 con riferimento al settore pubblico).
Il fatto è che l’istituto del whistleblowing resta divisivo culturalmente (non solo in Italia). Basti pensare che la nostra legge usa il termine molto generico e indeterminato di «segnalazione» e di «segnalante», senza aggettivazione qualificativa alcuna perché nella lingua italiana non esiste una parola che traduca i termini whistleblowing/whistleblower con connotazione positiva. E se in una lingua non esiste la parola vuol dire che non esiste il concetto (nomina sunt consequentia rerum): chi segnala è infatti ancora oggetto di un qualche giudizio di disvalore.
Sono state così necessarie ben due successive leggi attraverso le quali il Parlamento ha dettato i principi cui il decreto legislativo governativo di attuazione della delega doveva attenersi: la prima legge, del 2021, non ha trovato attuazione entro i termini; la seconda, del 2022, ha visto l’approvazione del decreto legislativo 24 del 2023 solo nel giorno di scadenza dei termini (il 10 marzo, come detto). E comunque il completamento dell’iter è stato problematico fino all’ultimo, giacché persino nel passaggio della bozza di decreto legislativo, redatta dal ministero della Giustizia, di fronte alle commissioni parlamentari in sede consultiva sono state manifestate serie opposizioni ai contenuti del testo, sostenendo soluzioni in aperta contraddizione con la disciplina europea.
Il fatto è che la direttiva ha una portata significativamente innovativa in almeno due aspetti. Anzitutto, si pensi che il segnalante può procedere attraverso tre tipi di canali, cosicché a quelli interni predisposti dall’ente dove si svolge il lavoro, e a quelli esterni (in Italia Anac o le Procure della Repubblica o della Corte dei conti), se ne aggiunge uno di un terzo tipo: la cosiddetta divulgazione pubblica (ovvero a mezzo stampa). La sua previsione è conseguenza della giurisprudenza avviata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, che opera a protezione dei diritti contenuti nella Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (a cui partecipano i 46 Paesi membri del Consiglio d’Europa). Si tratta della sentenza Guja c. Moldova (12 febbraio 2008) – che ha avuto un’importante nuova conferma nel caso Halet c. Lussemburgo (14 febbraio 2023) – secondo la quale il whistleblowing non è soltanto uno strumento per far emergere illegalità (approccio cosiddetto governmental oriented, cioè indirizzato all’emersione di condotte non integre), ma è anche, appunto, una modalità per consentire a una persona di essere tutelata dalla prospettiva del suo diritto alla libertà di espressione (approccio human rights oriented, cioè rivolto all’affermazione di diritti individuali). Se così deve essere occorre allora che gli Stati favoriscano l’esercizio di questa libertà quando le segnalazioni ai canali interni ed esterni di cui si diceva non sortiscano effetto alcuno, o siano pregiudizievoli vuoi per la situazione del segnalante vuoi ai fini corretto svolgimento del procedimento.
Il secondo aspetto di novità è rappresentato dalla necessità che gli Stati adottino un sistema di protezione del whistleblower tanto per il comparto pubblico quanto per il comparto privato, mediante una salvaguardia che sia il più possibile uniforme e tenga conto delle necessità minime stabilite dalla direttiva stessa. Si potrebbe ben dire che l’Italia già conosce una disciplina indirizzata ai due comparti; ma il punto è che la protezione del whistleblower nel comparto privato, disposta nella legge 179/2017, risulta assai debole, costruita com’è sui soli modelli organizzativi, gestionali e di controllo caratterizzanti gli enti disciplinati dal decreto legislativo 231/2001 (sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica), modelli che debbono prevedere la protezione del whistleblower.
Inoltre, dal recepimento italiano della direttiva Ue emergono alcune scelte normativa fatte utilizzando il perimetro della discrezionalità consentita (anzi incoraggiata) dal legislatore europeo, il quale ha invitato gli Stati membri ad andar oltre l’armonizzazione minima europea per dettare un regime più robusto di protezione del whistleblower.
La soluzione di adottare una complessiva disciplina per dettare una salvaguardia del whistleblower, che segnali tanto violazioni del diritto interno italiano quando del diritto dell’Unione europea, appare saggia al fine di facilitare l’interpretazione e l’applicazione delle norme, comunque complesse per contenuti e modalità di redazione.
La scelta presenta del resto anche un altro vantaggio, non essendo sempre facile distinguere da parte dell’ordinamento di uno Stato membro se la violazione segnalata riguardi una norma nazionale oppure una regola dell’Ue. Un esempio tratto dall’attualità può aiutare a comprendere: i provvedimenti delle stazioni appaltanti italiane per l’esecuzione dei progetti di investimento del Piano nazionale di ripresa e resilienza si collocano in un contesto giuridico non solo nazionale ma pure disciplinato, per così dire “a monte”, dall’Ue col cosiddetto strumento NextGenerationEu (Regolamento UE 2020/2094) e col Dispositivo di ripresa e resilienza (Regolamento UE 2021/241, generatore dei vari Pnrr dei 27 Stati membri). Le risorse finanziarie del Next Generation EU, del resto, sono reperite dall’Ue anche – e soprattutto – ricorrendo a prestiti internazionali, garantiti dal debito comune fatto dagli Stati membri (si veda la Decisione UE 2020/2053). Così i danari che arrivano dall’Unione hanno anzitutto una disciplina collocata in quell’ordinamento giuridico, comprendente un regime europeo di protezione del bilancio dell’Ue stessa tramite un meccanismo di “condizionalità” di cui sovente si parla.
Si tratta, infatti, di una disciplina che all’attribuzione da parte dell’Ue di risorse finanziarie agli Stati membri fa tra l’altro discendere la necessità che essi rispettino determinati principi, come quelli dello Stato di diritto (si veda il Regolamento Ue 2020/2092). E dunque la direttiva 2019/1937, quando si tratta di pregiudizio a fondi dell’Ue, stabilisce la protezione da parte della Commissione europea del segnalante (art. 5.4). Ma nei procedimenti di “messa a terra” dei finanziamenti Ue in questione sono in concreto implicati atti di enti pubblici italiani (fra cui tantissimi Comuni), adottati sulla base di norme italiane, soggette alla disciplina di diritto amministrativo italiano, e così via. Sarebbe perciò nel caso difficile, se non impossibile (e comunque facile fonte di contenzioso), pretendere di distinguere fra diversi regimi di protezione, separandone l’ambito di incidenza sul whistleblower.
Un’altra scelta interessante – di tecnica legislativa – è l’accoglimento almeno parziale, da parte del decreto n. 24, del sistema (cosiddetto copy-out) di riprodurre puntualmente norme della direttiva, in particolare quelle di qualificazione dei principali termini utilizzati; o concernenti i presupposti che abilitano il whistleblower a passare dal canale di segnalazione interno a quello esterno e, infine, a quello di “comunicazione pubblica”; o relative alle disposizioni procedurali riguardanti il meccanismo di segnalazione e le modalità di amministrazione della segnalazione; o, ancora, quelle sull’identificazione dell’ambito di applicazione materiale.
A quest’ultimo proposito emerge una significativa criticità: la norma italiana, prendendo spunto dal fatto che la direttiva non se ne occupa con riguardo al diritto dell’Ue, non considera come possibile oggetto della segnalazione le mere irregolarità (cosiddetta maladministration). Questo assetto, esteso alle segnalazioni concernenti condotte riscontrabili con riferimento al diritto italiano, rappresenta una regressione rispetto alla situazione disciplinata dalla legge 179/2017, che invece ricomprende anche le irregolarità, e in definitiva urta contro il disposto della direttiva stessa che all’art.25 vieta, a motivo del recepimento della direttiva, un abbassamento del regime nazionale preesistente.
Anche la precisazione dell’ambito soggettivo di applicazione delle nuove norme risponde alla tecnica del copy-out: è amplissima la platea dei segnalanti, estesa dai meri dipendenti a tirocinanti, a «facilitatori» (la persona fisica che assiste un’altra nel processo di segnalazione), a congiunti del whistlewblower, a chi abbia anche solo un’aspettativa di assunzione, a chi sia già in quiescenza ma segnali fatti avvenuti durante il proprio rapporto di lavoro, purché la questione (ma il limite vale per l’ambito privato) venga in rilievo in un ente che abbia avuto nell’anno precedente alla segnalazione una media di almeno cinquanta dipendenti.
Quest’ultimo punto, limitativo, “apre” a una grande debolezza del sistema italiano, ma ne potremo parlare in una successiva occasione.
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