Via il carbone, via il petrolio, via il motore a scoppio, via il gas, via i nitrati, via i fitofarmaci, via gli antibiotici animali, via la plastica, ecc. Se dovessimo sintetizzare in una parola l’attuazione del Green Deal, vero cavallo di battaglia dell’attuale Commissione europea, quella giusta sarebbe proprio questa: Via! Via a qualsiasi tipo di strumento ritenuto non naturale, e quindi, in quanto tale, dannoso per l’ambiente.



Peccato che si confonda il naturale con lo spontaneo. E peccato che sia proprio questo il mestiere dell’agricoltore e dell’allevatore (potremmo dire, anche dell’uomo): plasmare la realtà, favorire lo sviluppo della natura, per il bene di tutti, poiché la natura, spontaneamente, non porterebbe gli stessi frutti. Nessuno nega la necessità del percorso di transizione ecologica che tutti i settori produttivi devono attuare; servono però tempi e modalità adeguate.



Tutta una categoria – in sella ai propri trattori – è sul piede di guerra non per un capriccio o per chiedere sussidi. È sul piede di guerra perché questa politica europea sta minando alla base il lavoro di questo settore. Ma qual è quell’agricoltore – soprattutto se di piccole dimensioni – che non si preoccupa di custodire quel pezzettino di “ambiente” in cui lavora e nel quale abita con tutta la sua famiglia? Per quale ragione dovrebbe utilizzare agrofarmaci dannosi per l’ambiente o per chi acquisterà i suoi prodotti? Cosa ci guadagnerebbe? Quale allevatore somministrerebbe farmaci che possano avere ricadute sulla salute dei propri animali o di chi li mangerà? La plastica non serve forse – nei casi di vendite al dettaglio soprattutto – per ridurre lo spreco e il deterioramento del cibo?



C’è un’idea molto chiara, a ben vedere, dietro queste politiche: l’uomo è un intruso e come tale deve ridurre al minimo la sua attività. I concimi inquinano (in diverse Regioni, Emilia-Romagna inclusa, una ferrea burocrazia che recepisce la direttiva nitrati impone quali sono i giorni in cui concimare e quali no); la terra va lasciata riposare (il 4% del terreno deve rimanere incolto, secondo la nuova PAC), e la natura va “ripristinata”: questo è il più recente tassello appena approvato dal Parlamento europeo, con l’ennesima spaccatura all’interno del PPE. Lo scorso 28 febbraio da Strasburgo si è stabilito che i Paesi membri dovranno ripristinare “il buono stato di salute” di almeno il 30% degli habitat (foreste, praterie, paludi, argini, laghi e coralli) entro il 2030; percentuale che dovrà arrivare al 60% entro il 2040 e al 90% nel 2050. Continua la politica dei grandi obiettivi, continua la politica marketing-oriented che “vende” al proprio elettorato dei paletti imposti ai Paesi membri, non curandosi delle ricadute.

Tre sono i problemi di una politica siffatta. Primo: i Paesi europei non sono tutti uguali. Imporre il 4% di terreno incoltivato non ha lo stesso impatto in Italia e negli altri Paesi. L’Italia non ha gli spazi sconfinati di Francia, Spagna e Germania e al tempo stesso è anche il Paese col maggior numero di colture (insieme agli iberici). Ciò significa che vincoli di questo genere hanno un impatto decisamente superiore a quello che subiscono gli altri Paesi.

Secondo: i tanti vincoli europei, pur prendendo per buono che garantiscano maggiore qualità, fanno crescere i costi di produzione e quindi i prezzi. Al tempo stesso importiamo le stesse categorie di prodotti da Paesi extra-Ue che non dovendo rispettare tali vincoli hanno prezzi più bassi. In altri termini, facciamo autogol.

Terzo: la crescita dei costi non è ugualmente affrontabile da tutte le imprese agricole. Tante aziende agricole non hanno le economie di scala necessarie per sostenere costi più alti; ne consegue una progressiva chiusura delle attività: si stima, nei prossimi 15 anni, un -50%, come emerge da recenti indagini di Progetto Agrimanager.

Occorre tornare a una politica che veda positivamente l’impegno dell’uomo, che dia credito al lavoro e che non lo guardi con diffidenza. È la diffidenza che produce burocrazia: per impedire che qualcuno “rubi”, leghiamo le mani a tutti. Occorre invece il coraggio di un’autentica sussidiarietà, che parta dal presupposto che chi si impegna lo faccia per un bene, correndo il rischio che qualcuno provi a fare il furbo, ma almeno evitando che chi ci mette passione e impegno quotidiani non venga penalizzato. Ed è ascoltando loro che si capirà su quali politiche occorre puntare.

In un recente incontro con alcuni agricoltori emiliano-romagnoli, mi ha colpito come uno di loro ha descritto il suo mestiere: “L’agricoltore è chi si fa dettare le regole dalla realtà. Il nostro mestiere è quello di osservare ogni giorno la terra, le piante, e agire di conseguenza”. Dobbiamo ribaltare il paradigma europeo attuale: l’uomo non è il nemico dell’ambiente, ma il suo custode. Certo, è stato un custode distratto, ma non è “licenziandolo” dal pianeta che risolveremo i problemi, ma responsabilizzandolo.

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