La protesta dei trattori sembra archiviata, i blocchi spariti. La Commissione ha fatto delle concessioni, come il ritiro della proposta legislativa sui pesticidi il 6 febbraio scorso, nel mezzo della protesta, dunque questo è il messaggio passato nei media: vi ascoltiamo. È di diverso avviso Alessandro Panza, europarlamentare di I&D e responsabile delle politiche per le aree montane della Lega.



“Le aperture della Commissione sono più figlie del timore elettorale che di un vero e proprio ravvedimento”, spiega Panza.

Eppure la volontà di rivedere la PAC (Politica agricola comune) è stata annunciata in modo chiaro.

Sì, ma sembra più un contentino che una vera e propria presa di posizione. Bisognerà vigilare, e soprattutto incalzare la Commissione a non rimangiarsi tutto, una volta finite le elezioni.



Oggi la PAC va bene o no? Quali sono le sue critiche?

La PAC è uno strumento fondamentale, ci sono anche degli aspetti positivi, ma la complessità e la difficoltà riscontrate dagli agricoltori nell’adempimento delle procedure sono un tema che solleviamo da tempo. Inoltre la riduzione di budget a disposizione ha penalizzato più i piccoli agricoltori che non i grandi.

Secondo voi la protesta degli agricoltori è la conseguenza di obiettivi irrealistici dettati dalla transizione prevista dal Green Deal. Cominciamo proprio dal settore agricolo.

Immaginare che il settore agricolo sia la causa principale del cambiamento climatico non solo è infondato, ma profondamente ingiusto nei confronti di chi già da anni si batte per la sostenibilità. A tutto questo vanno aggiunte le strampalate teorie sui cosiddetti “novel food”, che vogliono spacciare prodotti come le farine di insetti e le carni sintetiche come il futuro sostenibile su cui contare.



Invece?

Invece sappiamo che i bioreattori, gli strumenti con il quale si produce la carne in laboratorio, oltre ad essere molto onerosi dal punto di vista della sostenibilità, hanno anche dei costi di messa in funzione che sono di molto al di fuori della portata dei produttori. In questo modo aprono di fatto il settore alle grandi multinazionali, anche extraeuropee, con il rischio che queste potrebbero assumere un ruolo dominante nell’alimentazione della popolazione.

Anche gli obiettivi macro della transizione, non solo quelli relativi al comparto agricolo, hanno incentivato la protesta. Secondo lei perché?

Tutto il Green Deal si basa su una grande falsità, quella della neutralità climatica dell’Europa che salverà il mondo. La realtà è che per inseguire obiettivi auto-imposti l’unico risultato ottenuto è stato quello di mettere in difficoltà interi settori produttivi – non solo l’agricoltura, ma anche quello dell’energia, l’automotive e via dicendo –, esponendo l’Europa alla sudditanza nelle materie prime necessarie per l’implementazione di tali tecnologie. Materie prime quasi tutte provenienti dalla Cina.

L’agricoltura europea è storicamente sussidiata. È un bene o un male?

Sussidiare l’agricoltura non deve essere vista come una cosa negativa. Senza sussidi non esisterebbe, non evolverebbe e soprattutto non garantirebbe quella sovranità alimentare di cui si vaneggia a Bruxelles. Ma i sussidi devono e possono essere spesi meglio e con obiettivi che siano concordati, e non solo imposti agli agricoltori.

È qui la radice della protesta?

Sì, perché gli agricoltori restano sempre l’anello più debole della catena. E quando l’anello si rompe, riempie le strade di trattori e di contadini esasperati.

Da che cosa va difesa l’agricoltura?

Da norme troppo stringenti e soprattutto dalla grande distribuzione, che ha sempre fatto profitto sulla pelle dei produttori. Questo è il vero schema che deve essere interrotto.

Ma neppure la transizione regge, senza un fiume di denaro pubblico.

Se la transizione si fa con investimenti può diventare un plus, ma oltre alla transizione ecologica dev’esserci anche una transizione sociale, altrimenti rischiamo di avere un provvedimento profondamente classista. Basta guardare la direttiva sulla cosiddetta “Casa green”.

Intende dire che si fa una “sostenibilità” non sostenibile?

Certo. Vuole obbligare i proprietari a soddisfare dei requisiti di sostenibilità imposti a tavolino che però costano soldi veri, si parla di oltre 60mila euro per abitazione. E chi non ha i soldi come fa? Diventa un fuorilegge a cui si può portare via la casa? Così non può funzionare.

Rispetto all’obiettivo della neutralità climatica, ossia emissioni zero entro il 2050, nel mezzo della protesta dei trattori la Commissione ha annunciato un nuovo obiettivo intermedio, -90% entro il 2040, passando per il -55% entro il 2030; sempre garantendo che nessuno sarà lasciato indietro. Qual è la sua previsione? 

È dai tempi di Europa 2020 (strategia varata nel 2010, nda) che si fissano degli obiettivi da raggiungere in un determinato lasso di tempo – in questo caso era la riduzione della CO2 del 20% entro il 2020 rispetto al 1990 –, ma non appena ci si avvicina alla scadenza e gli obiettivi sono ben lontani dall’essere raggiunti, si alza l’asticella, con obiettivi sempre più ambiziosi che sistematicamente non verranno raggiunti. La neutralità climatica farà la stessa fine.

La Nature Restoration Law, legge sul ripristino degli ambienti naturali, è stata approvata dall’europarlamento. Cosa chiede ai nostri “ecosistemi”?

Pensare di ripristinare il 20% degli ecosistemi senza tenere conto delle conseguenze significa condannare interi territori all’abbandono. A pagarne il prezzo, e ad essere penalizzate, non saranno certo le aree urbane, ma quelle rurali e soprattutto quelle montane. Poi, quando avremo intere vallate abbandonate a loro stesse e intere popolazioni costrette ad andarsene, forse anche a Bruxelles qualcuno si accorgerà di aver sbagliato, ma potrebbe essere troppo tardi.

Il conflitto tra “innovazione” – la transizione green – e produttività è evidente. Prendiamo i fertilizzanti chimici: la sola riduzione del 20% nei campi entro il 2030 vale -5,4 mld di euro. Può farci un altro esempio?

Il primo che mi viene in mente è quello sull’auto elettrica. Vietare la vendita di auto con motore termico dal 2035 non solo non è percorribile, per via delle catene di approvvigionamento e per la capacità di risposta alla domanda di energia, ma rischia di far sparire un intero settore di indotto che nel nostro Paese vale oltre 70mila posti di lavoro. E per ottenere cosa? Che la Cina sta iniziando a vendere le sue macchine qui da noi. È geniale: distruggiamo la nostra economia per favorire i nostri avversari.

Cosa va cambiato? Quali sono gli obiettivi da rivedere?

Va cambiato completamente l’approccio. Va detto basta a ideologie che hanno fatto più danni della guerra. Serve buonsenso. L’Europa deve pensare non ad essere un mercato dove i più forti spadroneggiano e i piccoli soccombono. Con piccoli intendo le Pmi, ma anche le famiglie e le amministrazioni locali.

Torniamo al punto: cosa deve fare l’Unione?

Se l’Europa vuole essere di nuovo un faro nel mondo, deve tornare a fare investimenti che tengano conto sì della sostenibilità, ma anche della crescita economica.

Cosa propone?

Occorre voltare pagina. Continuare altri 5 anni con Ursula von der Leyen o con leader orientati come lei verso ideologie green, non solo sarebbe moralmente discutibile, ma rappresenterebbe anche un rischio significativo.

(Federico Ferraù)

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