Nei giorni scorsi il Tar del Lazio ha accertato – con sentenza 7183 del 16 giugno 2021 – che le sanzioni disciplinari irrogate da un ente pubblico nei confronti di un whistleblower hanno un illecito intento punitivo.

Chi è il whistleblower? Porre in essere un atto di whistleblowing significa segnalare (anche solo rischi di) condotte illecite o irregolarità di cui si sia venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro: la legge 179 del 2017 tutela il whistleblower quando, a motivo della segnalazione, venga fatto oggetto di misure discriminatorie o ritorsive (siamo al di fuori degli specifici obblighi di denuncia che spettano alle persone che ricoprono determinate qualifiche pubbliche, nonché al di fuori dei limitati casi di obblighi di denuncia previsti dal codice penale – ad es. art. 364 – a carico del comune cittadino).



La legge 179 è uno dei tanti sviluppi della cosiddetta “legge Severino” (190/2012), approvata per dare adempimento a obblighi internazionali dell’Italia, fra cui la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003. In questo trattato vi è infatti la previsione (artt. 8.4 e 33) dell’impegno degli Stati contraenti a valutare l’utilità di introdurre misure di protezione del segnalante. Un altro trattato, la Convenzione civile sulla corruzione del 1999 elaborata nell’ambito del Consiglio d’Europa, prevede (art. 9) in modo più significativo l’obbligo per gli Stati contraenti di elaborare norme a tutela del segnalante, cioè di colui che, stando alla locuzione inglese, “soffia nel fischietto” per richiamare l’attenzione su situazioni anomale.



La legge, intestata all’allora Ministra della giustizia del Governo Monti, dispose (art. 1, comma 51) l’obbligo per la Pubblica amministrazione italiana di non discriminare tali segnalanti. Ebbe il merito di introdurre nell’ordinamento nazionale un istituto – straniero, a cominciare dal nome – il cui recepimento ci era stato per anni richiesto da istituzioni intergovernative competenti a valutare l’adempimento italiano rispetto a vincoli internazionali per il contrasto alla corruzione. In particolare così si era espresso il Working Group on Bribery dell’Ocse e il Group of States against Corruption-GRECO del Consiglio d’Europa. I limiti di questa prima attuazione in Italia sono stati peraltro di due tipi: l’aver disposto una tutela soltanto in ambito lavorativo pubblico (e non anche privato, essendo la legge destinata al solo contrasto alla corruzione nella pubblica amministrazione), e avervi comunque provveduto con una forma di tutela assai poco significativa.



L’istituto ha un’origine assai datata. Nel 1777 (soltanto pochi mesi dopo la Dichiarazione di indipendenza delle ex colonie inglesi) dieci marinai ottennero la protezione da pratiche improprie (assimilate addirittura a trattamenti inumani e degradanti) riservate loro dal comandante della Continental Navy. Alla sentenza che riconobbe il diritto alla segnalazione e alla conseguente protezione da misure discriminatorie seguì il primo provvedimento normativo, via via rafforzato (nel 1863, nel 1912, nel 1989, nel 2009 e infine nel 2012) con regole sempre indirizzate a incentivare l’emersione di abusi di potere, frodi, atti di corruzione nell’amministrazione federale statunitense. Sulla stessa lunghezza d’onda si situano i provvedimenti adottati in altri ordinamenti, per esempio nel Regno Unito con il Public Interest Disclosure Act del 1989 (integrato nel 2013 dall’Enterprise and Regulatory Reform Act). 

Anche l’ordinamento italiano ha sviluppato questo approccio – definito government oriented (cioè di politica pubblica) perché indirizzato a far emergere irregolarità o illegalità – adottando la legge 179/2017, che detta una più compiuta disciplina di protezione del segnalante (dipendente tanto pubblico quanto- pur consentendo al riguardo molti limiti – privato). 

Per l’ambito pubblico la legge dispone in tema di canali istituzionali per procedere a segnalazioni (il Responsabile della prevenzione della corruzione e per la trasparenza presente in ogni ente pubblico, l’Autorità Nazionale Anticorruzione-Anac) o a denunce (le Procure, tanto penali che della Corte dei Conti), stabilendo inoltre l’obbligo di tutela del segnalante motivato dall’esigenza di preservare l’interesse collettivo e non solo un proprio diritto che egli pretenda negato. La tutela è assai articolata. Al divieto di misure demansionanti o discriminatorie conseguenti alla segnalazione si aggiungono: la previsione della loro nullità; l’inversione dell’onere della prova ponendo a carico del datore di lavoro la dimostrazione della portata non discriminatoria delle misure in questione; la protezione della riservatezza della segnalazione (tanto sul contenuto della segnalazione che sull’identità del segnalante, ivi compreso il divieto di accesso al dossier relativo), giacché le segnalazioni anonime non sono oggetto della normativa sul whistleblower. Manca – a differenza di quanto avviene nell’ordinamento statunitense – un qualche incentivo economico che spinga la persona a segnalare e che lo indennizzi in moneta dei danni diretti o indiretti che discendano dall’aver segnalato.

Per l’ambito privato la tutela è riservata al solo dipendente di un ente che si sia dotato di un proprio modello di organizzazione, gestione e controllo come stabilito dalla disciplina contemplata dal decreto legislativo 231 del 2001, che disciplina la responsabilità amministrativa di società, associazioni, ecc. Nella prassi la tutela che la legge predispone è assai fragile, limitata al solo dipendente che segnali tramite un canale interno e non anche esterno rispetto all’ente di appartenenza. Al proposito è indicativa la sentenza del Tribunale di Milano, sezione lavoro, del 10 marzo 2021, la quale ricava dai principi dell’ordinamento (e non puntualmente dalla legge 179/2017) la tutela del dipendente che segnala con denuncia all’autorità giudiziaria.

L’approccio normativo cosiddetto government oriented di cui si parlava è sostenuto dalla convinzione, confermata dalla prassi, che un whistleblower ricopra entro l’ente per il quale lavora un ruolo cruciale, essendo in astratto il naturale alleato del proprio datore di lavoro nello scoraggiare e nel far emergere condotte illegali e irregolari.

Al di là della disciplina prevista occorre tuttavia aggiungere che l’istituto fatica a essere praticato in modo appropriato nell’ordinamento italiano. Esso sconta alcuni pregiudizi culturali che premiano in generale la cultura dell’omertà rispetto a quella della trasparenza: una cultura che determina la tendenza all’irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti del dipendente che, segnalando, è piuttosto ritenuto mettere a rischio la reputazione, oltre che di singole posizioni lavorative interne, anche complessivamente dell’ente implicato. Insomma, la legalità in Italia non sembra essere considerata abitualmente faccenda che riguardi i singoli cittadini, ma piuttosto questione spettante alle autorità preposte all’attività pubblica o a quella imprenditoriale: sono queste a doversela cavare per conto proprio… mentre il cittadino che segnala assume piuttosto la fisionomia del delatore, della spia!

D’altra parte l’istituto è spesso utilizzato in modo improprio dal dipendente che consideri di poter tutelare, tramite la segnalazione, proprie posizioni soggettive individuali, non essendo consapevole che il whistleblowing è funzionale alla tutela anzitutto dell’interesse collettivo. 

Le difficoltà in cui versa l’istituto in Italia emergono molto bene dal monitoraggio che annualmente compie Anac sulla propria attività di vigilanza in materia e sulla prassi di un certo numero di pubbliche amministrazioni italiane su cui Anac stessa vigila: dalla prassi emerge con chiarezza che – al di là del dato distonico del 2020, dovuto probabilmente al “lavoro a distanza” conseguente alla pandemia – le segnalazioni fatte all’esterno degli enti di appartenenza aumentano, mentre diminuiscono quelle interne, che tendono contemporaneamente a diventare sempre più spesso anonime, senza quindi rientrare nell’istituto di cui stiamo parlando. Ciò significa che la fiducia sull’utilità di una segnalazione interna “in chiaro”, firmata, diminuisce, accompagnandosi anche alla consapevolezza dei rischi che questa attività di trasparenza comporta per il proprio autore.

La cronaca conferma questa conclusione: oltre al sopra ricordato caso risolto con sentenza del Tar del Lazio, si può rammentare la difficile vicenda del segnalante nel caso di Stefano Cucchi, oggetto di pestaggio da parte di carabinieri.

In materia di contrasto alla corruzione, e in relazione al Piano nazionale italiano di ripresa e resilienza (Pnrr), va infine ricordato che le riforme previste nel Piano sono addirittura più di cinquanta, ma non si trova menzione di un intervento in tema di tutela del whistleblower.

Il fatto è che la direttiva Ue 1937 del 2019 dispone in tema di tutela del segnalante per condotte irregolari o illecite specificamente ai danni del mercato interno europeo: la disciplina italiana sul whistleblower dovrà ben essere rivista al fine di adeguarsi alla direttiva entro i termini di adempimento previsti, cioè il 17 dicembre prossimo per l’ambito pubblicistico e il 17 dicembre 2023 per l’ambito privatistico. Ora, se si considera che l’art. 5.4 del regolamento Ue 2092 del 2020 prevede la tutela anche per chi segnali direttamente alla Commissione europea casi di cattiva amministrazione delle risorse devolute dall’Ue considerando applicabile la disciplina contenuta nella direttiva in questione, ne deriva che quest’ultima è strettamente implicata nelle procedure che presidiano l’attuazione dei Pnrr nazionali.

Peraltro l’adempimento della direttiva in Italia non è di facile soluzione. Esso è previsto nella legge di delegazione europea 53 del 2021, il cui art. 23 detta principi e criteri direttivi proprio per adeguare l’ordinamento nazionale ai contenuti della direttiva. Così, fra le tante, una questione assai delicata al proposito emerge dal fatto che la direttiva accoglie una diversa dimensione del whistleblowing: non più soltanto strumento per far emergere condotte di illegalità o irregolarità, ma anche strumento human right oriented, ovvero di promozione del diritto alla libertà di espressione e del diritto all’informazione. La direttiva dell’Unione considera insomma che il whistleblower “serve” al rafforzamento della democrazia perché valorizza la trasparenza e l’integrità dell’agire tanto pubblico che privato nei 27 Stati membri. 

Sulla stessa linea è la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (ad es. casi Guja c. Moldova del febbraio 2008 e Halet c. Lussemburgo del maggio 2021), nell’interpretare l’omologa Convenzione europea elaborata nell’ambito del Consiglio d’Europa e applicabile ai suoi 47 Paesi contraenti.

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