L’intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara – finita nel libro “Il Sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” – dovrebbe essere letta da tutti. Qualunque sia l’orientamento politico o la simpatia personale di chi lo ha già fatto o si accinge a farlo si tratta di un’esperienza formativa. A meno che non si voglia contestare la veridicità del racconto, che peraltro poggia su solidi riscontri, nessuno potrà più dire “Io non lo sapevo”.
Non sapevo che la magistratura fosse nel suo complesso – le eccezioni sono tante e lodevoli – così tanto compromessa con la politica. E non sapevo che la magistratura – nonostante le tante lodevoli eccezioni – ragiona e agisce con gli schemi più deteriori della politica politicante, una degenerazione della Politica con la P maiuscola che resta la più alta e nobile delle arti. Cade così anche l’ultimo velo dell’ipocrisia che da sempre ammanta il mondo delle toghe.
Un mondo che costituisce un potere costituzionale in doveroso confronto con gli altri due, il legislativo e l’esecutivo, con i quali dovrebbe tenersi in equilibrio in modo che nessuno prevalga sull’altro ma tutti si tengano e si controllino a vicenda per evitare dolorosi scivoloni a una democrazia ancora immatura. Il regolare e sano gioco delle parti è stato immaginato per difendere la libertà di tutti e di ciascuno di fronte al possibile prevalere di una sulle altre.
Ma così non è da tempo. E chi finge di non accorgersene, chi nega questa evidenza, o è accecato dall’ideologia o mente sapendo di mentire. Due atteggiamenti entrambi pericolosi per il regolare andamento di una società che voglia semplicemente funzionare. I ritardi della giustizia civile e l’inaffidabilità di quella penale negano alla radice la funzione stessa di un ufficio così delicato e centrale perché i cittadini non siano trattati alla stregua di sudditi.
Da Tangentopoli in poi, in particolare, si è radicata la prevalenza assoluta nel processo penale della figura del pubblico ministero, di chi cioè esercita l’accusa. Una funzione che la Costituzione – la più bella del mondo secondo alcuni – vorrebbe dello stesso peso della difesa in modo da evitare soprusi e garantire equità nel procedimento. Insomma, un confronto leale e ad armi pari tra chi contesta a un soggetto di aver commesso un reato e chi lo disconosce.
La cronaca e l’esperienza ci mostrano come questa eguaglianza sia invece puntualmente negata nei modi e nei tempi. Il pubblico ministero è diventato il dominus assoluto di un processo infinito che si consuma troppo di frequente nella fase preliminare durante la quale l’imputato è letteralmente in balìa del suo accusatore che può dispiegare tali e tante forze, non ultima la compiacenza di certa cattiva informazione, da rendere impari qualsiasi confronto.
La pretesa ed espressa superiorità di una parte sull’altra è un vulnus che mina alla base la correttezza del processo e manda all’aria la convivenza civile. E quando si viene a sapere che i presunti tutori della giustizia brigano per le loro carriere come se fossero faccendieri, sollecitando e accettando bassi compromessi pur di raggiungere l’agognato obiettivo, cade miseramente anche l’ultimo brandello di fiducia. Senza il suo collante, la società si sfalda.
Non a caso la riforma del settore è considerata prioritaria dall’Unione europea per l’erogazione dei tanto celebrati 209 miliardi del Recovery fund conosciuto con il nome ambizioso di Next Generation Eu. Con una giustizia come quella che ci ritroviamo non è difficile capire perché i capitali interni fuggono e quelli esteri non arrivano. È grave mantenere gli occhi chiusi pur di non affrontare il più grave e urgente dei problemi del Paese.