Il Green New Deal europeo presentato all’inizio di questa settimana dalla Presidente della Commissione ha già suscitato reazioni nei partner commerciali dell’Unione. Il risvolto “commerciale” di un piano con cui si impongono alle imprese europee nuove tasse per indirizzare in senso green la produzione, infatti, non può che essere l’introduzione di dazi all’importazione. Se così non fosse le imprese europee si troverebbero fuori competizione nei confronti di società che hanno fabbriche in Paesi che non hanno ancora o non avranno mai regole ambientali simili. Ursula von der Leyen è quindi obbligata a “risolvere” il dilemma con dazi all’importazione, promettendo però che tutto avverrà nel rispetto delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Questo ottimismo forse è mal riposto. Ieri il Governo australiano per bocca del ministro del Commercio ha dichiarato che “se l’Unione europea introduce dazi sui prodotti che arrivano nell’Unione europea, l’Ue sta trattando diversamente i prodotti interni all’Unione rispetto a quelli importati”. Conclusione: “Guarderemo molto attentamente a ciò che fanno. L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è l’introduzione di nuove politiche protezionistiche.” L’imposizione di questi dazi, assumendo un dato contenuto di CO2, è oltretutto complicato e apre a infiniti dibattiti vista la “complessità” del tema che è sempre a rischio di tanta ideologia. Basterebbe indagare, per dire, su cosa finisce nelle batterie o nei pannelli solari, da dove vengono e come vengono prodotti; oppure su quello che accade alla scadenza della loro vita utile.
È inevitabile quindi che i partner vedano un rischio protezionistico mentre i cittadini europei dovrebbero pagare di più per prodotti che appena fuori dai confini costano meno o molto meno. Gli incentivi ad aprire canali alternativi e poi il controllo sono quindi un tema irrisolto.
Anche gli Stati Uniti non staranno a guardare. John Podesta ha dichiarato, in merito ai dazi verdi che l’Europa si appresta a introdurre, che “potrebbero far ritornare a frizioni commerciali”. Ci si riferisce in questo caso a quelle dell’era Trump. L’Amministrazione Biden di fronte alla possibilità che l’Europa imponga dazi alle importazioni verso l’America potrebbe rispondere introducendo a sua volta dazi contro le esportazioni europee. Non avrebbe scelta per non alienarsi il “suo” mondo produttivo. L’Europa impone dazi sulle importazioni di alcuni beni che importa e si aspetta che alcuni di quelli che esporta continuino a viaggiare liberamente perché inequivocabilmente “verdi”. Siccome su quello che produce o non produce inquinamento c’è tantissima ideologia e moltissima discrezionalità, i rischi di incomprensione sono evidenti. Qualcuno potrebbe dire che un diesel di ultima generazione che va a gasolio verde, per dire, inquina di meno di una batteria fatta estraendo materie prime in un Paese africano, con tutto il contorno, e piena di chimica irriciclabile.
Se il buongiorno si vede dal mattino quello che sta emergendo è la possibilità che si arrivi a una seria contrapposizione tra l’Europa e i suoi partner commerciali. Il rischio vero è che la politica europea stretta dalle pressioni esterne e da quelle interne, fatte da consumatori che di tutto hanno bisogno tranne che di pagare di più beni di largo consumo, scelga di andare avanti sull’ideologia, punendo comunque le aziende che producono in Europa, senza alzare barriere commerciali, impossibili, e per non ammazzare di costi i propri consumatori. La vittima è l’industria europea, All’inizio non si percepirebbe, poi arriverebbe tutto l’impatto di questa politica.
La scadenza degli obiettivi climatici di Cina e degli Stati Uniti, 2050 o tra una generazione e mezza, apre ampi spazi sulla velocità con cui si possono raggiungere. Nessuno sembra avere voglia di buttare via un mondo, quello degli idrocarburi, senza il quale gli incrementi di produttività che ci hanno permesso il nostro stile di vita, e un aumento di qualche decennio della vita media, sarebbero stati impossibili. Le rinnovabili certamente possono essere sviluppate e incentivate, ma senza ammazzare nel frattempo quello che c’è e comunque sempre in modo intelligente e compatibile con la vita di milioni di persone che non hanno voglia di tornare a lavare i vestiti a mano. Se l’Europa vuole essere la prima o la più veloce deve essere coerente e diventare autarchica, si spera impensabile, pena la fine del suo sistema industriale. Altrimenti, prima o poi, dovrà spiegare ai suoi cittadini e ai disoccupati che cosa è successo.
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