Dalle difficoltà della Cina alla nuova alleanza nel Pacifico fra Usa, Australia e Gran Bretagna, dalle tensioni nell’area (vedi anche caso Myanmar) alle due Coree che tornano a parlarsi: l’Asia-Pacifico è oggi l’area del mondo più in evoluzione, un quadrante a cui sarebbe opportuno guardare con apprensione e attenzione, per i possibili sviluppi politici, economici, finanziari, militari e geostrategici. Che cosa sta succedendo nel Far East? Come evolverà la situazione? Cosa farà la Cina presa nella tenaglia delle difficoltà interne e delle sfide esterne? L’Europa e l’Italia che ruolo riusciranno a ritagliarsi? Per cercare di capire e prevedere i possibili sviluppi ne abbiamo parlato con Francesco Sisci, giornalista, sinologo, già inviato de La Stampa a Pechino e attualmente opinionista per tv europee e americane.
L’Asia-Pacifico è in gran fermento, dettato anche dal cambio di guida e di paradigma degli Stati Uniti?
È un cambio di paradigma, ma non di guida, che è arrivato lentamente, con il Pivot to Asia di Obama, poi con la trattativa commerciale di Trump e ora con l’impegno deciso di Biden.
La Cina è alle prese con alcuni grandi problemi interni ed esterni. Uno su tutti, il crack Evergrande e la bolla immobiliare: è stato assorbito, come dicono alcuni osservatori, oppure lascerà delle cicatrici profonde sul tessuto socio-economico cinese e sulle strategie del Pcc?
Finora vedo delle soluzioni tampone, ma non sono stati ancora affrontati i problemi di fondo. Del resto, questi problemi sono estremamente complicati, come abbiamo già detto, e ci vorrà del tempo per risolverli. È importante vedere come evolverà la situazione ora, perché non è nell’interesse di alcuno avere una crisi finanziaria che parte dalla Cina e mette a rischio una ripresa del dopo Covid appena iniziata.
Blackout, razionamenti, chiusura di impianti produttivi: la stretta energetica sta mettendo in ginocchio la produzione cinese? O la Cina può permetterselo, perché produce tutto, non così Usa e paesi Ue? E questo cosa implica?
La questione energetica in Cina è la seguente. I produttori di energia sono locali, semi privati, spesso non limpidissimi. Oggi si lamentano di produrre in perdita, perché il prezzo di gas e carbone, importati, è aumentato e quindi vogliono sussidi. Il governo centrale è parsimonioso sui sussidi, perché teme finiscano per alimentare la corruzione, ma neppure vuole aumentare il prezzo dell’elettricità al consumo che spingerebbe dinamiche inflattive. Quindi nel mezzo di questi due scogli rimane il razionamento dell’energia, che porta disagi ai cittadini, ma soprattutto intacca la produzione industriale. Questo e il crack Evergrande sono problemi di sistema che possono essere tamponati nel breve, ma devono essere affrontati in maniera sistemica. Tali crisi ci sono anche nelle democrazie liberali, ma qui in caso di problemi simili c’è una crisi finanziaria, il governo cade, si va alle elezioni e si ricomincia daccapo. In Cina come si fa?
Due giorni fa la Corea del Nord ha detto no all’offerta di dialogo avanzata dagli Usa e ha ripeso colloqui di pace con la Corea del Sud. Che cosa nasconde questa mossa? C’è dietro lo zampino della Cina?
Sembra che ci siano segnali di normalizzazione della tensione. C’è stato l’annuncio di un primo colloquio tra militari, per evitare fraintendimenti, fondi americani hanno accettato garanzie di Pechino su Evergrande e forse si lavora a una soluzione concordata sul debito. Questo non cambia la direzione della tensione, ma si cerca di gestirla evitando degenerazioni improvvise, come fu nella prima guerra fredda con l’Urss.
Sul fronte internazionale, la Cina deve rispondere alla sfida di Aukus, l’alleanza fra Australia, Stati Uniti e Gran Bretagna. Che cosa farà Xi Jinping?
Non è chiaro. Per ora si è impennata la retorica nazionalista, cosa pericolosa per la Cina e per gli altri, anche se nell’attuale momento ha una sua razionalità.
L’Aukus è un’iniziativa che mira a rallentare o impedire i progetti di Xi che vuole “annettere” Taiwan?
Credo che l’Aukus abbia un obiettivo più ampio, che sia il nucleo di una specie di nuova Nato dell’Indo-Pacifico.
Proprio l’Aukus ha reso evidente il ruolo secondario che sullo scacchiere geo-strategico mondiale può giocare l’Europa. La Francia, dopo la rottura dell’accordo con l’Australia sui sottomarini nucleari, per ritorsione ha bloccato le trattative commerciali con il governo di Canberra, trascinando nella disputa la stessa Ue. Una mossa azzardata e pericolosa?
Mah, io non direi l’Europa. Nell’Aukus c’è il Regno Unito che mette in avviso l’Unione Europea, ma anche questo solo in parte. Dimentichiamo che già Francia e Germania hanno inviato missioni navali nel Mar Cinese meridionale. Credo che Aukus offra materia per riflettere ai vari paesi europei, e soprattutto all’Italia, che sembra fare finta di credere che le questioni stiano da un’altra parte.
Restiamo all’Europa. Si parla di un progetto di difesa comune, che sta sempre più diventando una necessità. La Ue ha le forze, l’ambizione, le risorse e la leadership per poter tentare questo passo?
Il progetto di difesa europeo è nobile, ma non può essere la promessa del playboy al bar, che dice “Ti amo per tutta la vita” e dopo una notte di baldorie fugge dal letto alla chetichella. Oggi l’Italia spende in difesa l’1% del Pil. Un progetto di difesa europeo significherebbe almeno quintuplicare tale spesa per 10-20 anni. La Nato chiede da anni all’Italia di arrivare al 2% del Pil come quota spesa per la difesa. Che farà Roma? Porterà la ragazza in camera sapendo che poi la deve sposare e gli cambia la vita, oppure farà finta di niente e fuggirà dopo qualche frase altisonante?
Come valuta l’ultimo intervento di Draghi in questa direzione?
Draghi ha il merito non minuscolo di porsi il problema della difesa, di pensare alla difesa europea rendendosi conto che costerà, come costerà ripagare il debito che oggi l’Italia contrae. Ma forse una domanda da porsi sul serio, al di là di “esercito europeo sì o no”, è: a che deve servire l’esercito? A quale interesse strategico dell’Italia deve servire l’esercito?
Una possibile risposta?
In base alle risposte a queste domande possiamo dire che tipo di esercito ci serve. Se andiamo per campi ci serve un trattore, se a una gara vogliamo la Ferrari, in autostrada una Bmw, in città una Smart eccetera: se sbagliamo macchina, questa sulla strada diventa un disastro, sfasciamo il mezzo e non andiamo da nessuna parte. Per questo servirebbe davvero una definizione dell’interesse nazionale italiano. Senza di questo siamo in mano ai venti che soffiano.
È ancora il momento di costruire ponti con la Cina?
Capisco come nessun altro il bisogno di creare e costruire ponti con la Cina, e il Papa ci invita da anni a costruire ponti, non ad alzare muri. Ma i ponti si costruiscono con qualcuno che sa come fare e ha un piano preciso, e scegliendo una sponda da cui iniziare. Senza idee chiare e pretendendo di stare in mezzo si viene semplicemente travolti dalla corrente.
Su che sponda è oggi l’Italia? E l’Italia vuole cambiarla?
È giusto parlarne, ma se vogliamo arrivare a un matrimonio e non fare i playboy questa è la strategia. Comprensibile che nel paese di don Giovanni la tentazione di seguire la tradizione antica sia forte, ma poi c’è una folla di commendatori che chiedono il conto all’Italia.
(Marco Tedesco)
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