Alla vigilia delle prossime elezioni europee è fondamentale ribadire la mia profonda convinzione sul fatto che il mondo abbia più bisogno di un’Europa “libera e forte” per guarire dei suoi mali. Ma nello stesso tempo è necessario interrogarsi su cosa ci aspettiamo tutti dall’Europa in fatto di principi e di valori, di regole e di criteri, per governare sempre meglio i nostri Paesi e risolvere in modo sempre più efficace i nostri problemi.
Tuttavia lascia spiazzati l’adozione di linee di indirizzo, oggettivamente poco comprensibili, invasive e invadenti, che limitano la legittima aspirazione di un Governo a esercitare il proprio ruolo con piena responsabilità e consapevolezza. È quanto è accaduto in questi giorni con l’Assegno unico, il sussidio alle famiglie più bisognose introdotto dal Governo Draghi unificando i diversi contributi che giungevano frammentati alle famiglie con maggiori fragilità per svariate ragioni. Una sacrosanta misura di contrasto alla povertà e di aiuto alla natalità, nell’ottica di una solidarietà esercitata nei confronti di chi ha maggiori esigenze e necessità.
L’iniziativa Draghi, accolta a suo tempo con un generale consenso, è stata successivamente confermata dal Governo Meloni, intervenuto per modificare e ampliare l’assegno. Una misura che deve comunque fare i conti con le risorse limitate di cui dispone il nostro Paese, afflitto da un debito strutturale di enormi dimensioni, per cui può essere applicata solo definendo nel modo più chiaro e corretto possibile a chi va applicata e a chi no. In altri termini definendo i criteri di inclusione e i relativi criteri di esclusione per essere applicata in modo giusto, evitando di incorrere in errori che ben conosciamo e che hanno una schietta matrice demagogico-populista. Di fatto se dovessi identificare uno dei mali peggiori che in questi ultimi anni hanno afflitto l’Italia, metterei la demagogia populista decisamente al primo posto. Di questa demagogia l’Europa, in più di una occasione, è stata corresponsabile aprendo procedure di infrazione contro l’Italia, ricusando i limiti che un sano realismo impone a chiunque voglia governare in modo consapevole e responsabile. Non si può dare tutto a tutti e si ha l’obbligo di dare di più a chi necessita di più.
Nonostante il realismo sia un frutto maturo dell’arte del buon governo, la burocrazia europea nel febbraio 2023 ha chiesto al Governo italiano di eliminare alcuni dei vincoli posti, concretamente quello che limitava l’erogazione dell’assegno a quei nuclei familiari che avessero almeno due anni di residenza in Italia e un figlio a carico. Tra gli scandali che maggiormente hanno colpito l’opinione pubblica e hanno indebolito le casse dello Stato ai tempi del Reddito di cittadinanza tutti ricordano con quanta capillare efficienza fosse stato elargito a stranieri, non residenti in Italia, ma capaci di mostrare un reddito talmente sottosoglia da impietosire anche il burocrate più arcigno.
Del Reddito di cittadinanza si è criticato più volte l’insufficiente sistema di verifica e di controllo. In questo caso appare evidente che quando si parla di “almeno due anni di residenza in Italia e un figlio a carico” si intende che siano persone inserite nel sistema Paese, che lavorino e paghino le tasse, per scarse che possano essere; che contribuiscano al benessere nazionale, il famoso Pil, anche in modo minimale; e che il figlio a carico risieda in Italia, perché l’Italia si possa prendere cura di lui.
È difficile per gli enti che nel nostro Paese si occupano di politiche socioassistenziali comprendere le dinamiche e i modelli strutturali di famiglie che provengono da Paesi con un assetto sociosanitario così diverso dal nostro. Basta pensare al piccolo esercito di badanti che provengono dai Paesi dell’Europa dell’Est o dai Paesi dell’America del Centro-Sud o più recentemente anche dai Paesi del Maghreb: lavorano in Italia per contribuire a mantenere le loro famiglie, inviando loro gran parte di quanto guadagno qui, e per questo affidano i loro figli ai nonni o al genitore che rimane nel Paese d’origine. Per quanto possa sembrare difficile la loro condizione e per quanta gratitudine si possa avere nei loro confronti per il servizio che rendono a molte delle nostre famiglie, sarebbe oggettivamente impensabile poter sostenere tutti questi bambini sparsi nel mondo intero nelle più diverse e spesso nelle più difficili condizioni socioeconomiche. Il budget disponibile si azzererebbe in un lampo. Il che non vuol dire che non siano necessarie misure di sostegno e di contrasto alla povertà in quei Paesi, ma non può essere l’Italia a farsene carico. Già il nostro SSN si fa carico di coloro che sono in Italia e tutela la loro salute garantendo cure gratuite agli indigenti. Ma non potrebbe certamente farsi carico di tutti i bambini del mondo. Per lo meno non è l’Italia che dovrebbe farsene carico, mentre è possibile immaginare che un’Europa più generosa e solidale potrebbe sostenere i bisogni di salute di moltissimi bambini che soffrono per malnutrizione, per malattie infettive, anche perché non sono vaccinati.
Nel Giubileo dei governanti del 2000 Giovanni Paolo II aveva avuto l’audacia di chiedere la cancellazione del debito dei Paesi poveri, ma nonostante la sua indubbia autorevolezza non se ne fece nulla. Non perché non fosse giusto e necessario, ma perché i Paesi, compresi quelli europei, misero in evidenza la pochezza delle loro risorse per un obiettivo di così alto livello. Attualmente l’Assegno unico è costato circa 13,4 miliardi di euro e ne hanno usufruito più di 6 milioni di famiglie. Sembra difficile immaginare una moltiplicazione di costi per questo strumento dopo le recenti dichiarazioni del ministro dell’Economia in merito al contenimento dei costi e al proposito di non aumentare il debito pubblico. Occorre che l’Europa rinunci a far valere astratti egualitarismi e consenta all’Italia di continuare a garantire agli attuali aventi diritto quanto è stato loro promesso, senza scivolare in una demagogia sterile. L’ottimo, teorico, può essere decisamente peggio del buono, quando è concreto e reale.
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