Il prezzo del gas in Europa ieri ha chiuso ai massimi di sempre oltre il picco di inizio ottobre; il prezzo è sette volte più alto di un anno fa. Il “caro bollette” è solo una parte del problema; il ministro Giorgetti pochi giorni fa prospettava il rischio di blackout e ieri sui quotidiani olandesi si discuteva dell’impossibilità del Governo a garantire la fornitura per le imprese. In questo contesto parlare di ripresa nel 2022 è lunare; non esiste crescita o produzione industriale se i prezzi dell’elettricità dovessero rimanere questi o se i Governi decidessero di optare per i blackout coinvolgendo le imprese.
Ieri un importante quotidiano nazionale spiegava che l’Europa sfiderà la Russia con “biogas, stoccaggi e acquisti comuni di metano”. È la prova provata che non c’è alcuna percezione del problema. Per rendere l’idea è come se con l’acqua in casa fino al collo si proponesse come soluzione un nuovo impianto idraulico comunale mentre si rischia di annegare. Il “biogas” non è una soluzione praticabile nei prossimi cinque anni; gli stoccaggi richiedono anni e un complicato processo autorizzativo che di solito incontra vivaci opposizioni locali. Quanto agli acquisti comuni di metano da parte dell’Europa, la burocrazia europea, oltre a essere elefantiaca, non è attrezzata per una sfida di questo tipo; gli Stati sono estremamente più efficienti soprattutto perché l’approvvigionamento di gas è un tema molto sensibile politicamente e geopoliticamente.
In questi stessi giorni tutti i principali organi di informazione finanziaria internazionale danno conto dello scontro tra Germania e Francia sull’inserimento del nucleare tra le fonti “green”. Peccato che il gas sia politicamente molto più sensibile; si pensi alle relazioni con la Russia o al destino grottesco del Nord Stream 2, che rimane chiuso nonostante una crisi energetica grave proprio per ragioni geopolitiche. Mettere in mezzo l’Europa non è una soluzione e come minimo comporterebbe un’ulteriore dilazione rispetto a un problema molto urgente.
Non è probabilmente chiaro che l’Europa ha bisogno del gas russo molto più di quanto la Russia abbia bisogno di venderlo all’Europa. Sul confine tra Russia e Cina è da anni in corso un investimento colossale per costruire l’infrastruttura che porti il gas russo in Cina. Settimana scorsa Mosca ha siglato un accordo con l’India per la fornitura di 15 milioni di barili di petrolio entro il 2022. L’Europa è convinta, incredibilmente ancora oggi, che tutto sia acquistabile sul mercato senza implicazioni politiche, ma non funziona così; sicuramente non funziona così per i produttori, che chiedono impegni pluriennali in cambio di forniture a prezzi stabili. Non dovrebbe essere una novità nel Paese che ha dato i natali a Enrico Mattei. Si è persino costretti a considerare la possibilità che la Germania si stia affrettando a chiudere le sue centrali nucleari perché teme che la posizione francese possa vincere in Europa e il nucleare venga inserito tra le fonti “green”.
In questo scenario affidare il problema “all’Europa” sembra un modo per scaricare il problema a qualcun altro. Scaricando sull’Europa problemi che non può risolvere, non si fa il bene dell’Unione. Se si è deciso di tagliare i rapporti commerciali con la Russia per ragioni politiche, occorrerebbe un realismo infinito non solo nelle modalità di questo taglio, ma anche nella ricerca di alternative; sempre ammesso che ci siano nei tempi che si è decisi a perseguire. L’idrogeno e il bio-gas non sono una soluzione rispetto all’urgenza estrema del problema e il nucleare, per chi non ce l’ha, nemmeno. Neanche le rinnovabili sono una soluzione, visti i problemi che comportano su costi, affidabilità, programmabilità e immagazzinamento.
Senza il gas nel minore tempo possibile, riaprendo anche esplorazioni ed estrazione a mare in Italia, l’unica conclusione possibile sono i blackout e la povertà energetica. Non è pessimismo. Sono i fatti nudi e crudi che ci vengono, tra l’altro, presentati come rischi imminenti da politici di primo piano.
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