Il Parlamento europeo riunito a Bruxelles in sessione plenaria ha approvato una risoluzione che praticamente congela l’Accordo comprensivo sugli investimenti fra Ue e Cina, i cui negoziati si sono conclusi a dicembre dello scorso anno. La risoluzione chiede alle autorità cinesi di revocare le sanzioni imposte nei confronti di enti e cittadini europei (fra cui cinque membri dello stesso Parlamento europeo) in risposta alle sanzioni imposte dalla Ue il 22 marzo scorso.



E rammenta che il Parlamento europeo terrà conto della situazione dei diritti umani in Cina, ivi compreso Hong Kong, quando sarà chiamato a deliberare sulla ratifica dell’Accordo sugli investimenti, così come di futuri accordi commerciali con la Cina.

Una mossa giusta o sbagliata? Per rispondere, occorre fare un passo indietro.



Il 22 marzo 2021, l’Unione Europea ha imposto sanzioni (divieti di viaggio e congelamento dei beni) nei confronti di una società e quattro alti funzionari cinesi, tra cui il direttore dell’Ufficio per la sicurezza pubblica nello Xinjiang, per violazioni dei diritti umani della popolazione Uyghur e di altre minoranze musulmane nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nordovest della Cina. Si tratta della prima applicazione del nuovo regime di sanzioni globali (adottato con regolamento del 7 dicembre 2020), che consente all’Ue di adottare sanzioni mirate contro enti e individui ritenuti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani ovunque essi si trovino. La mossa dei 27 ministri degli esteri dell’Ue è stata sincronizzata con quella degli alleati. Lo stesso giorno Regno Unito, Stati Uniti e Canada hanno annunciato sanzioni contro i medesimi obiettivi. Si è, dunque, trattato della prima imposizione da parte dell’Occidente, a formazione completa, di sanzioni significative nei confronti della Cina per questioni sui diritti umani, dopo gli eventi di Tiananmen nel 1989.



La Cina ha risposto negando le violazioni dei diritti nello Xinjiang perché in realtà i suoi campi forniscono formazione professionale e sono necessari per combattere l’estremismo, ed ha esortato la Ue a “correggere il suo errore” e non interferire negli affari interni della Cina. Pechino ha anche reagito imponendo proprie sanzioni contro cinque membri del Parlamento europeo, tre membri dei parlamenti nazionali, due comitati dell’Ue (tra cui il principale organo decisionale in politica estera noto come Comitato politico e di sicurezza) e una serie di think tank ed esperti europei sulla Cina (tra cui la non-profit Alliance of Democracies Foundation, fondata dall’ex segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen). Sono queste le sanzioni di cui il Parlamento europeo chiede la revoca in vista della ratifica dell’Accordo sugli investimenti fra Ue e Cina.

Per comprendere il significato e soprattutto l’efficacia di queste nuove sanzioni incrociate e della risoluzione del Parlamento europeo, occorre ricordare le caratteristiche e le debolezze, per così dire, intrinseche dei diritti umani.

Il movimento internazionale per l’affermazione dei diritti umani trae ispirazione dalla Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo proclamata dall’Assemblea generale nel 1948. Si afferma nei decenni successivi: è del 1950 la Convenzione europea dei diritti dell’uomo conclusa nell’ambito del Consiglio d’Europa, che riunisce oggi 47 Stati membri – a tutt’oggi considerata lo strumento più avanzato di tutela dei diritti umani. Con gli Accordi di Helsinki del 1975, in cambio del riconoscimento dell’inviolabilità dei confini nazionali e del rispetto dell’integrità territoriale, l’Unione Sovietica accettava il principio del rispetto dei diritti umani. Negli stessi anni entravano in vigore due trattati internazionali a livello universale in materia di diritti umani: il Patto sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, entrambi ratificati da oltre 170 Stati. Da allora, la centralità delle norme internazionali relative ai diritti umani si è affermata nelle relazioni tra Est ed Ovest e oltre, ma con una debolezza intrinseca.

Il regime internazionale dei diritti umani è relativamente debole rispetto, ad esempio, al regime del commercio internazionale o degli investimenti all’estero. Nessuna forza di mercato competitiva spinge i Paesi verso la conformità, né gli Stati sono generalmente coerenti nella loro applicazione degli standards sui diritti umani alla loro politica estera, o – tradizionalmente – impiegano sanzioni politiche, economiche, militari o di altro tipo per costringere altri Paesi a migliorare la loro situazione in materia di diritti umani. Questo perché, contrariamente all’apertura commerciale o la protezione degli investimenti stranieri, uno Stato e i suoi cittadini sono difficilmente colpiti se i diritti umani dei cittadini di altri Paesi vengono violati nel territorio del proprio Stato di appartenenza.

È l’eterno dilemma dei diritti umani, il cui rispetto dovrebbe imporsi a nome dell’intera società internazionale, ma che di fatto non viene fatto valere se non quando siano in gioco specifici interessi nazionali. E senza Stati potenti che si interessino fortemente all’efficacia dei regimi internazionali dei diritti umani, costa nulla o poco per i Paesi che hanno una scarsa reputazione in materia di diritti umani ratificare i trattati sui diritti umani come gesto simbolico di buona volontà, senza mutare le proprie prassi nella realtà.

Quando l’Unione Sovietica era vicina al collasso e la caduta del muro di Berlino a pochi mesi di distanza, in Cina si verificarono due eventi con implicazioni per i diritti umani: la repressione armata da parte del governo cinese dei disordini politici in Tibet nel 1987-1989 e la violenta repressione del movimento per la democrazia in piazza Tiananmen nel giugno 1989. I Paesi occidentali imposero allora severe sanzioni economiche e l’embargo di armi contro entità e funzionari cinesi, il che portò a sua volta a una spirale di misure più dure: la soppressione di altre proteste in Cina e più pesanti condanne da parte dell’Occidente. Inizialmente, gli Stati Uniti adottarono misure forti contro il governo cinese, compresa la sospensione delle vendite militari, l’annullamento delle visite di alto livello e incontri regolari tra i due Paesi, la richiesta di interrompere tutti i nuovi prestiti del Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, la revoca per la Cina dello status di nazione più favorita e il collegamento della questione dei diritti umani con il commercio internazionale.

Tuttavia, il “monitoraggio bilaterale americano” della condizione dei diritti umani in Cina si è ufficialmente concluso nel 1994, quando l’amministrazione Clinton decise di non collegare più i problemi in materia dei diritti umani alle relazioni commerciali fra i due Paesi. L’embargo sulle armi dell’Unione Europea è ancora in vigore, ma anche l’Ue non aveva sanzionato la Cina in modo significativo dal 1989 per violazione dei diritti umani. Due hacker di computer e un’azienda tecnologica sono state bersaglio nel 2020 di sanzioni informatiche nell’ambito della lotta contro gli attacchi informatici.

Ora, per la prima volta, l’Occidente ristabilisce un collegamento fra il rispetto dei diritti umani e le relazioni economiche e commerciali con la Cina. Un cambiamento di posizione importante su cui è importante riflettere, indipendentemente dalla fondatezza e dalla gravità delle accuse mosse alle autorità cinesi (tortura, lavoro forzato e sterilizzazione ai danni della minoranza Uyghur). Questo cambiamento avviene in un momento storico particolare, in cui non si è ancora chiusa la guerra dei dazi innescata dalla presidenza Usa di Trump nel 2018 e su cui si è innescata la più grave crisi economica dal secondo dopoguerra, generata dalla pandemia di Covid-19, di cui si stenta a vedere la fine.

Proprio la Cina sembra avere i numeri per venirne fuori meglio e prima degli altri – certamente prima dell’Europa – sia dal punto di vista sanitario che da quello economico. Oggi, la Cina è il secondo partner commerciale dell’Ue dopo gli Stati Uniti e Pechino è per l’Europa e per il resto del mondo sia un grande mercato sia un importante investitore.

È evidente che in questo quadro la relazione fra commercio e diritti umani risulta invertita: non sono le relazioni commerciali sino-occidentali ad essere condizionate al rispetto dei diritti umani in Cina, ma la questione dei diritti umani diventa strumento per arginare lo sviluppo economico della Cina.

È una relazione del tutto inedita la cui opportunità e desiderabilità appaiono tutt’altro che scontate. Ma dubbia soprattutto è l’efficacia delle nuove sanzioni rispetto al loro obiettivo dichiarato di migliorare la situazione dei diritti umani in Cina. Occorrerà poi vedere se le sanzioni occidentali, così come quelle cinesi, avranno un impatto negativo più forte sulla Cina o sull’Europa e il resto del mondo.

Certo è che per ora a farne le spese sono innanzitutto i brands occidentali come H&M, Nike e Burberry oggetto di boicottaggio sui social media e le piattaforme di e-commerce cinesi, per aver tentato di distinguere le proprie fonti di approvvigionamento di cotone da quello prodotto nello Xinjiang – tentativo peraltro destinato all’insuccesso, sia perché le catene di approvvigionamento sono contorte e i subappalto assai comuni, sia perché il cotone dello Xinjiang costituisce circa un quinto del cotone prodotto in tutto il mondo. Ma a farne le spese sono tutte le imprese europee che con la mancata entrata in vigore dell’Accordo sugli investimenti, costato sette anni e 35 rounds di negoziati, vedono ritardata l’apertura del mercato cinese ai propri investimenti e la possibilità di competere, su basi paritarie, con le imprese cinesi e quelle di altri Stati non europei.

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