L’Indice PMI composito dell’Eurozona a gennaio è tornato a crescere dopo sei mesi consecutivi di calo. Nel lungo termine, tuttavia, le prospettive per l’industria europea non sembrano così rosee, tanto che la settimana scorsa da Davos Ursula von der Leyen ha proposto la creazione di un fondo sovrano europeo per rispondere alla sfida rappresentata dall’Inflation Reduction Act americano.
La posizione della Presidente della Commissione europea incontra, però, non solo le resistenze di alcuni Paesi europei, come la Germania, che vorrebbero solo un allentamento delle norme relative agli aiuti di Stato, ma persino del suo vice Valdis Dombrovskis, secondo cui anche i sussidi dei singoli Paesi alle proprie imprese sarebbero un problema. Secondo Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di economia industriale all’Università Cattolica di Milano, «è indubbio che l’Europa abbia un problema strategico rilevante da affrontare e che sia in difficoltà».
Da che punto di vista?
Le due grandi potenze globali, Stati Uniti e Cina, si muovono con una libertà di azione e con una massa critica enorme: basta guardare l’imponenza dell’Ira che è ammantato di obiettivi green, ma che di fatto è un grandissimo piano di sostegno all’economia. In questo contesto, l’Europa appare estremamente frammentata, e hanno rilievo le posizioni minimaliste, di stampo frugale, di Paesi ostili a priori al debito europeo. In alcuni casi vivono in un microcosmo che non può essere paragonato alle dimensioni della sfida industriale di nazioni più grandi come la Spagna, la Francia, l’Italia o la Germania.
La stessa Germania ha però messo un freno alla creazione di un fondo europeo, chiedendo di allentare invece le regole sugli aiuti di Stato.
La Germania, forte delle sue finanze pubbliche, pensa di poter avviare una propria politica industriale, ma, a mio avviso, sta sopravvalutando le proprie capacità, perché con gli aiuti di Stato potrebbe al massimo cercare di puntellare alcuni settori che stanno vivendo una crisi prolungata, come quello dell’auto, ma non reggere il confronto con colossi come Stati Uniti e Cina. Più in generale, se si guardano i dati sul debito pubblico diffusi a inizio settimana dall’Eurostat, relativi al terzo trimestre del 2022, e li si paragona con quelli dello stesso periodo del 2021, si può ben vedere che chi pensa di avere ancora spazi fiscali per una strategia nazionale “egoista” forse dovrebbe far meglio i propri conti per capire fino a che punto può indebitarsi.
Cosa dicono questi dati?
Evidenziano che in un anno il debito pubblico francese è aumentato di 116 miliardi, quello tedesco di 97, quello spagnolo di 71 e quello italiano di 36. A volte sembra che solamente l’Italia debba cercare di contenere il debito, ma anche gli altri Paesi forse non dovrebbero essere da meno e comprendere che non è attraverso gli aiuti di Stato che si possono fronteggiare le nuove sfide globali. Queste possono essere affrontate dall’Europa se procede unita, altrimenti non si ha alcuna chance di vittoria in una competizione globale in cui gli altri mettono in capo ben altre risorse. C’è un’altra questione interessante che emerge dai dati sul debito.
Quale?
In Europa il trittico dei frugali è costituito da Olanda, Finlandia e Austria. Quest’ultimo è il Paese, tra quelli con più di 3 milioni di abitanti, che in termini percentuali ha visto crescere più di tutti il debito pubblico nell’ultimo anno. Quelli che l’hanno aumentato di meno sono l’Irlanda e l’Italia. Tra l’altro, secondo le proiezioni della Commissione europea, dal 1995 al 2024 il nostro Paese può vantare 25 anni di avanzo primario di bilancio, mentre l’Austria 19, la Finlandia e l’Olanda 17, la Francia solo 6. Bisogna uscire dalla logica per cui il pretesto per non dar vita al debito comune in Europa è rappresentato dal fatto che sembra sempre che l’Italia voglia utilizzarlo per scaricarci dentro le sue difficoltà: l’Italia non deve prendere lezioni da nessuno. La maggior parte dell’aumento del debito pubblico del nostro Paese è dovuta sostanzialmente agli interessi da pagare sullo stock pregresso e a uno spread che ci punisce per una cattiva reputazione che non meritiamo.
Di fatto, quindi, l’Italia rappresenta una sorta di falso alibi che blocca iniziative basate su un debito comune europeo?
Sì e bisognerebbe fare in modo di smontare questa narrativa. L’Italia ha la seconda industria d’Europa ed è stato il Paese più competitivo, tra quelli più grandi, nell’uscire dal Covid, facendo meglio della Germania. L’Italia dovrebbe farsi promotrice di una campagna comunicativa sui numeri dei suoi conti pubblici, evitando di essere utilizzata da altri Paesi per nascondere le proprie pecche. Avrei preteso anche un atteggiamento diverso da parte di Christine Lagarde.
Si riferisce alla polemica relativa al rialzo dei tassi che la Bce intende varare quest’anno?
No, su quel fronte l’indipendenza della Bce è massima. Mi riferisco all’articolo con cui a inizio anno il Financial Times ha parlato dell’Italia come dell’anello debole dell’Eurozona. Visto che la Bce deve difendere l’euro, la sua Presidente in primis, insieme al nostro Governo, avrebbe dovuto comunicare in maniera netta che non lo siamo.
Ora occorre, però, rispondere in fretta all’Ira degli Stati Uniti. Per essere più rapidi si potrebbe procedere a un’estensione del già esistente fondo Sure, come suggerito dal Presidente del Consiglio europeo Charles Michel?
Più che l’aspetto tecnico della soluzione da adottare, mi preme rimarcare che l’Europa si trova di fronte a sfide, tra transizione ecologica e conseguenze del conflitto in Ucraina, talmente imponenti che non ci si può affidare a scelte individuali di singoli Paesi, ma bisogna trovare una strategia comune. L’Europa in questa fase si gioca molto del proprio futuro e l’attuale impasse sta diventando pericolosissima. Quel che serve non è un’iniziativa una tantum, com’è stata, pur meritoriamente, il Next Generation Eu, ma una strategia continuativa europea e solo il debito comune può consentire che sia di ampia portata.
L’Italia, intanto, potrebbe quanto meno fare un passo indietro sulla riduzione del credito di imposta di Industria 4.0…
Si tratta di un piano che non richiede grandi risorse e che ha dato risultati straordinari negli ultimi 7 anni. I dati di Ucimu-Sistemi per produrre mostrano che nel quarto trimestre c’è stato un incremento di ordini di macchine utensili per sfruttare l’ultima finestra per avere l’incentivo pieno. Vuol dire che ci sono aziende che hanno ancora voglia di investire. Non sono d’accordo sul fatto che realizzati gli investimenti sulle macchine occorra concentrarsi su quelli digitali: ritengo si debba, invece, proseguire su entrambi i livelli, anche perché sempre più macchine incorporano una componente digitale. Non va poi dimenticato che Industria 4.0 è uno strumento che può attirare investimenti stranieri in nuovi impianti sul territorio italiano.
(Lorenzo Torrisi)
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