La procedura di infrazione ancora non c’è, ma la linea da tenere per evitarla divide il governo. Proprio ciò che Bruxelles voleva. Conte intende negoziare un percorso di rientro a lungo termine, nel rispetto del Patto di stabilità; tuttavia il nodo delle coperture della flat tax, sollevato ieri da Tria, ha fatto sì che Salvini abbandonasse la riunione a Palazzo Chigi.
Le valutazioni contabili sono una cortina fumogena che nasconde un’iniziativa prettamente politica: non perché le prime siano senza senso, dice Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, ma perché “siamo a metà giugno, non sono disponibili i dati di finanza pubblica del secondo trimestre, né i dati sull’andamento complessivo dell’economia”. Lo scopo è un’altro: “dare una botta ad un governo fatto di partiti politicamente isolati in Europa”. E spedire l’Italia in recessione.
“Una Commissione uscente vecchia e delegittimata dal voto delle europee non può imporre scelte e sanzioni a governi e popoli” ha detto ieri Salvini. Non si direbbe: forse è “delegittimata dal voto” ma agisce come se il voto non ci fosse stato; “non può imporre scelte e sanzioni a governi e popoli” ma è proprio quello che si propone di fare. Ci aiuti a capire.
Le rispondo con un’altra domanda. E perché mai la Commissione non potrebbe avviare una procedura di infrazione? Da un punto di vista formale è in carica ancora fino a ottobre; da un punto di vista politico non sembra proprio che in quella struttura di sovragestione finanziaria che si chiama Unione Europea ci sia alcuna intenzione di cambiare orientamento rispetto al passato: anzi.
Cosa intende dire?
Intendo dire che è proprio la situazione di complessiva debolezza di questa struttura e delle sue cuspidi politiche – Germania, Francia, Olanda – a richiedere la mano pesante verso un Governo che, più a parole che nei fatti, tende ad assumere atteggiamenti di contestazione degli assetti maturati dopo il 2011.
E per quanto riguarda il merito dell’iniziativa di Bruxelles? Cosa può dirci?
Se si guarda ai numeri e alle dinamiche previsionali che vengono utilizzate, tanto dal Governo, come dalla Commissione per far partire questa procedura, è chiaro che quello del 2019 sarebbe, in termini assoluti, uno scostamento minimo su un bilancio di circa 800 miliardi. Più preoccupante il trend per il 2021 e le previsioni di bassa crescita per tutta l’area europea, ma non è niente di serio rispetto al passato e rispetto a quello che hanno fatto, stanno facendo e faranno altri governi europei. La prova è data dal fatto che se si mirasse davvero alla riduzione del rapporto debito/Pil, come si va dicendo, non si chiederebbe ad un paese in stagnazione – com’è in stagnazione l’Italia – di fare interventi che lo spediscano direttamente in recessione.
Dunque se non si vuole abbassare la ratio debito/pil, qual è l’intento di Juncker e compagnia?
Mi pare evidente: dare una botta ad un governo fatto di partiti politicamente isolati in Europa. Come mai, a fronte di uno scostamento tanto lieve rispetto a quanto concordato a dicembre con la stessa Commissione, adesso si solleva il problema in termini tanto rigidi? Tenga conto – lo dico ancora una volta – che qui siamo a livello di stime e illazioni e si oscilla attorno all’errore statistico.
Cosa significa, dal punto di vista tecnico, una procedura di infrazione?
La procedura di infrazione è una cautela inserita nell’articolo 126 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che prevede un monitoraggio continuo da parte della Commissione della finanza pubblica degli Stati che aderiscono all’Eurosistema. Prevede un dialogo continuo tra Stati e Commissione in caso di scostamento dai parametri fino ad una decisione del Consiglio – cioè dell’organo politico per eccellenza – che “imponga” l’adozione delle “misure ritenute necessarie per la correzione del disavanzo” ed eventualmente “misure sanzionatorie”. Insomma, una sorta di procedura di commissariamento che, da un punto di vista formale, presenta moltissimi punti interrogativi. E che è sempre stata criticata perché incongruente rispetto agli obiettivi che si prefigge.
Uno scostamento dai parametri tutto da verificare.
È quello che dicevo poc’anzi. Una procedura del genere, proprio per il carattere sanzionatorio che presenta, avrebbe senso, se mai lo avesse, di fronte a scostamenti accertati e documentati. Siamo a metà giugno, non sono disponibili i dati di finanza pubblica del secondo trimestre, né i dati sull’andamento complessivo dell’economia e la settimana dopo le elezioni del Parlamento europeo si comincia a parlare di procedura di infrazione per debito eccessivo? Mi rendo conto che nei talk show del dopocena si possono spacciare con aria seria cose di questo genere, come se si vivesse in un mondo meraviglioso dove a fine mese si hanno dati certi e previsioni infallibili. E dove le valutazioni sono esclusivamente tecnico-contabili. Ma così non funziona nemmeno la partita doppia di una bottega di piccole dimensioni.
Insomma dietro i discorsetti tecnici c’è ben altro. C’è la politica, quella dei rapporti di forza.
Direi proprio di sì. Si ricorda che ancora qualche mese fa, c’era chi, in Commissione, andava sibilando che i “mercati” avrebbero insegnato agli italiani a votare? Il gioco è fin troppo scoperto. Aggiungo solo una notazione.
Prego.
Quali sono i criteri cui ci si dovrebbe attenere nella valutazione dei bilanci nazionali? Quelli di Maastricht, quelli del Patto di stabilità e crescita del 1997, o quelli del Fiscal Compact? Siamo sicuri che si tratti di un sistema normativo chiaro e uniforme, della cui univocità si può essere ragionevolmente certi, tanto da poter irrogare sanzioni?
Questa volta a che cosa si riferisce?
Mi limito a ricordare che, quando si è trattato di valutare le legislazioni nazionali, la Corte di Giustizia si è spesa non poco sul principio di determinatezza delle fattispecie sanzionate. Qui a scegliere i criteri da applicare a queste valutazioni è la Commissione, all’interno di un paniere eterogeneo fatto di atti e fonti diverse. Tanto per fare un esempio, stando al Fiscal Compact del 2012, tutti avrebbero dovuto ridurre di 1/20 all’anno lo stock di debito eccedente il famoso 60% di Maastricht. Per noi – e non solo per noi, visti i deficit che si sono inanellati in giro per l’Europa in questi anni – avrebbe voluto dire recessione permanente. Le pare che sia andata così? Capirà che questo assetto delle normative europee alza ulteriormente il tasso di politicità di un confronto che, tra l’altro, non è sui conti, ma sulle linee di tendenza dei conti. Linee di tendenza che, ripeto, ci si ripromette di sanzionare in via preventiva. Mi rendo conto che è grottesco, ma questa è la realtà. E a questo si è ridotta l’Unione Europea.
Conte ha replicato a Juncker: “anche lui sbagliò con la Grecia”. “Sbagliò”, oppure la Ue con la Grecia ottenne esattamente quello che voleva ottenere?
Gran bella domanda, soprattutto se si osserva che ormai è un luogo comune ripetere che la crisi dei debiti sovrani del 2011, di cui dovremmo tutti avere un certo ricordo, e di cui stiamo pagando ancora tutti le conseguenze, non solo in Italia, si sarebbe potuta risolvere con una manciata di miliardi. E non è che non si sapesse o che lo si sia venuti a sapere soltanto dopo. È che anche lì il dato tecnico era solo un’occasione per legittimare una scelta politica. Bisognava sanzionare un paese che non rispettava le regole secondo la logica del “colpirne uno per educarne cento”, altrimenti la “credibilità” della moneta in cui era stato fatto rifluire dieci anni prima il marco tedesco sarebbe venuta meno. Oggi gli esiti di quella scelta sono sotto gli occhi di tutti.
Alla luce di queste considerazioni, secondo lei un accordo dell’Italia con la Ue è possibile?
È una vecchia regola che i contratti, come gli accordi politici, si facciano solo quando le parti in causa hanno interesse a contrattare. Che interesse ha l’Europa – meglio, Germania, Francia e rispettivi satelliti – a contrattare con chi vuole mettere in discussione pubblicamente non solo le sue regole, ma soprattutto il modo in cui queste sono state applicate? È chiaro che si tratta di una critica distruttiva del percorso che si è intrapreso nelle due crisi del 2007 e del 2011. È lì che l’Europa ha svoltato. La critica che si rivolge alla gestione europea della crisi è in realtà una critica radicale, che rende difficili le mediazioni, da una parte o dall’altra, non appena la si approfondisce.
Può fare un esempio?
Qualche settimana fa mi sono trovato ad un convegno di giuslavoristi dove mi si era chiesto di parlare di Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e di tutela internazionale del lavoro in Costituzione. Ho spiegato cos’è il Nairu, cioè il tasso di disoccupazione non inflattivo programmato dalla Commissione per ciascun paese. Quel calcoletto, insomma, per cui ogni paese dell’area euro deve avere un tasso di disoccupazione programmato altrimenti sale l’inflazione. È stato molto divertente osservare le reazioni. Il corollario di questo parametro è, evidentemente, che la disoccupazione non è un male in sé, anzi, è auspicabile per la stabilità dei prezzi.
Il lavoro delle persone sacrificato agli algoritmi!
Certo. Capisce cosa c’è in gioco, alla fine? È la conservazione o meno di un’impostazione di pensiero economico che nasce in Germania con la Stabilitaetsgesetz del 1967, si è diffuso alla fine degli anni 70 ed è stato codificato, per vie diverse, nei Trattati europei. E da lì non ci si sa muovere, innanzi tutto perché si è scoperto che l’applicazione su scala continentale di quella linea di pensiero economico, come ha impoverito alcuni, ha arricchito altri come mai prima. E se comanda chi ha vinto, perché mai si dovrebbero cambiare adesso le regole?
L’Unione Europea, vecchia o nuova legislatura non importa, spadroneggia al suo interno e sembra molto forte. Ma è così?
Guardi, l’Unione Europea è stata una costruzione americana nel dopoguerra e, in quella fase, ha assolto un ruolo. Così come ha avuto un ruolo subito dopo il 1989, inglobando i paesi dell’Est. Da lì in poi le cose hanno preso a cambiare. L’assetto attuale è quello che si è costruito dopo la crisi del 2011 ed è una cosa ancora diversa. Oggi l’Unione si è rattrappita su due debolezze diverse: quelle di Francia e Germania che si sostengono a vicenda. In una fase in cui gli Usa crescono come mai negli ultimi anni, ed in cui la Cina ha colmato il suo storico gap tecnologico con l’Occidente, l’Europa è del tutto inesistente da un punto di vista politico.
E da un punto di vista economico?
Secondo i parametri di altri blocchi, è praticamente in stagnazione, con enormi disomogeneità al suo interno e vive del traino dei mercati esteri. In una condizione del genere i margini di crescita di Germania e Francia possono essere solo a discapito dei vicini. Il che dice molto di questa procedura di infrazione. L’Ue poi deve affrontare lo smacco della Brexit. Per il momento è ai margini della guerra commerciale che si sta giocando tra Usa e Cina, ma quando questa guerra sarà finita quale sarà il destino dell’Unione? Io non ho sentito nessuna riflessione al proposito: solo polemiche contabili. Le sembrano segni di forza?
(Federico Ferraù)