Incurante del fatto che Bill Gates sia un grande finanziatore globale della ricerca per il vaccino anti-Covid, l’Ue attacca Microsoft: la madre di tutte le “bestie nere digitali”, finita nel mirino dll’Antitrust Ue già nel 2004. Allora fu il commissario italiano Mario Monti a irrogare una multa record (497 milioni di dollari) per abuso di posizione dominante nella cosiddetta “interoperabilità” delle informazioni relative ai server. Cinque anni dopo il colosso di Windows è stato di nuovo colpito da Bruxelles, ormai in pieno territorio-web: riguardo il browser Internet Explorer, sempre comunque per questioni concorrenziali. Un decennio dopo, dal quartier generale Ue si è levata invece un’accusa assai più complessa e pesante.
L’Edps – il Sorvegliante europeo della protezione dei dati personali – ha lanciato un allarme circostanziato: i dati personali legali, finanziari, politici e commerciali dei 46 mila funzionari delle istituzioni europee, dalla Commissione alla Banca centrale europea, sono nelle mani di Microsoft. Lo sono sulla base di accordi che lasciano al gruppo fondato da Bill Gates ampia discrezionalità di trattarli ed esportarli dove crede e, in molti casi, di utilizzarli in violazione delle stesse norme europee sulla privacy: senza che le istituzioni europee ne abbiano sufficiente controllo e senza che sappiano dove esattamente alcuni dei dati vengono costruiti al di fuori del territorio stesso dell’Ue.
Il campo di battaglia fra Bruxelles e Redmond sembra dunque divenuto squisitamente geopolitico: là dove si incrociano tematiche di tutela della privacy di persone, Stati e aziende e aggiustamento dei nuovi rapporti strategici di forza fra potenze sul terreno digitale. È lo stesso spazio nel quale si stanno già combattendo altre “guerre”: quella attorno all’espansionismo di Huawei in Europa è forse la più evidente. E non è certo un caso che proprio in questi giorni la Gran Bretagna (appena uscita dall’Ue) abbia alzato un muro verso il controverso gigante cinese del 5G, accusato di intenti “spionistici” di massa in Occidente. E questo avviene mentre l”atteggiamento di Bruxelles e dei grandi Paesi Ue (a cominciare dall’Italia) rimane invece possibilista verso Huawei: soprattutto nello scenario problematico di exit dall’emergenza Covid, nel quale non saranno marginali né le commesse cinesi, né l’offerta di investimenti a vario titolo classificabili alla voce “Belt & Road”.
Sarebbe tuttavia fuorviante vedere nel rialzo di tiro europeo verso Microsoft un’iniziativa esclusivamente geopolitica. Ci ha pensato l’attuale commissaria all’Antitrust Margarethe Vestager – vicepresidente esecutivo di Ursula von der Leyen – a tenere l’offensiva in una cornice economico-finanziaria. In un’intervista al Wall Street Journal, Vestager ha ribadito l’esigenza di dare “confini legali” al mercato digitale, su molti versanti: soprattutto allorché la pandemia ha ulteriormente centralizzato il ruolo dei servizi online nell’e-commerce piuttosto che nella stessa gestione dell’emergenza sanitaria.Tuttavia la commissaria danese non ha mancato di battere il tasto della legalità fiscale. La tendenza al monopolio (globale) da parte delle piattaforme Usa cui oggi sembrano contrapporsi solo quelle cinesi, ha già prodotto in Europa una presunta evasione fiscale che nel solo caso di Apple Bruxelles ha già quantificato in 14,5 miliardi di euro. Sono cifre – quelle che un Paese come la Francia vuol giù tenacemente recuperare alla voce “web tax” – che si confrontano con quelle ritenute necessarie per gli interventi straordinari di rilancio dell’economia post-Covid.
Nel frattempo nella patria di Microsoft, ma anche di Google, Apple, Amazon e Facebook, la “questione digitale” è tutt’altro che inquadrabile in modo univoco. Ormai è deciso che nel mese di luglio i Ceo dei quattro “Gaaf” della Silicon Valley saranno ascoltati assieme dal Senato di Washington: per la prima volta, su tutti i temi dell’agenda digitale. L’audizione avverrà a quattro soli mesi dal voto per la Casa Bianca: in avvicinamento al quale nessuno dei due probabili contendenti (il presidente Donald Trump e il democratico Joe Biden) ha peraltro scoperto le carte su questo terreno delicatissimo.
Le schermaglie fra Twitter e Trump non devono trarre in inganno: fra il Presidente e i giganti digitali i rapporti non sono affatto in crisi, soprattutto dopo una riforma fiscale sostanzialmente orientata a una logica di “condoni tombali” per gli enormi profitto accumulati dalla Silicon Valley nei paradisi fiscali. E a Wall Street i titoli digitali sono oggi alle stelle: anche grazie ai potenti stimoli fiscali e monetari promossi dall’amministrazione per contrastare l’emergenza Covid. Lo stesso Biden deve la sua nomination “obamiana” a un netto distacco rispetto agli approcci punitivi di Bernie Sanders e di altri pre-candidati “democrat” radicali: sia sul piano fiscale che su quello regolamentare. Sarebbe in errore anche chi si attendesse da un’eventuale presidenza Biden interventi antitrust sulla Silicon Valley: perché, anzitutto, depotenziare la leadership tecnologica Usa di fronte alla grande controffensiva del Dragone?