L’Inflation Reduction Act (Ira) varato dall’Amministrazione Biden preoccupa non poco l’Europa. Nel pacchetto, che vale 369 miliardi di dollari, sono previste, infatti, anche sovvenzioni e agevolazioni fiscali per i prodotti “made in Usa”. “Abbiamo tutti sentito le storie di produttori che stanno pensando di trasferire i futuri investimenti dall’Europa agli Stati Uniti”, ha spiegato la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
E il commissario per il Mercato unico, Thierry Breton, ritiene che la risposta dell’Ue debba passare anche da “un piano di sostegno massiccio per l’industria”, con la possibilità di prestiti agevolati agli Stati membri, visto che non tutti “hanno la stessa capacità di indebitamento”.
A inizio settimana i vicepresidenti della Commissione, Valdis Dombrovskis e Margrethe Vestager, hanno incontrato nel Maryland il Segretario di Stato Tony Blinken e quella al Commercio Gina Raimondo e da parte americana è stato deciso di creare una task force per trovare il modo di evitare uno scontro tra le due sponde dell’Atlantico. Abbiamo chiesto un commento a Mario Deaglio, professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino.
Esiste effettivamente il rischio che l’Ira possa spingere le imprese a trasferire loro produzioni dall’Europa agli Stati Uniti?
Direi senz’altro di sì. Washington si prepara a fornire sussidi a quelle imprese che abbiano stabilimenti negli Stati Uniti. Questo vuol dire che chi vuole vendere sul mercato americano sarà spinto a produrre direttamente negli Usa. È una variazione del fenomeno del reshoring, giustificata dalla volontà di contrastare l’inflazione, che però dall’altre parte dell’Atlantico ha natura diversa dalla nostra.
L’Amministrazione Usa vuol mantenere l’Ira, ma si è detta intenzionata a non penalizzare i suoi alleati. È possibile trovare il modo di farlo?
Nessuno ha la bacchetta magica e credo non esista una formula per trovare una soluzione di questo tipo. Anche perché a gennaio i Democratici perderanno la maggioranza della Camera e diventerà, quindi, più difficile per l’Amministrazione far approvare i suoi provvedimenti. C’è, pertanto, la necessità di varare quelli più importanti prima di quella data. Va tenuto presente, inoltre, che l’Europa potrebbe sanzionare le Big tech americane per la loro posizione dominante piuttosto che sul fronte della privacy o aumentare la tassazione nei loro confronti. Non so dire, quindi, come potrà finire, ma ci sono almeno questi elementi da tenere presenti nella vicenda.
L’Europa potrebbe, quindi, mettere sul piatto il trattamento riservato alle Big tech americane. Breton ritiene comunque che l’Ue dovrebbe varare un suo piano per l’industria, visto che anche la Cina sta cercando di attirare le imprese europee.
Occorre sicuramente una strategia comune, perché al momento ciascun Paese membro è in qualche modo costretto ad arrangiarsi da solo e questo non è un bene. Credo che si potrebbe rimettere sul tavolo l’idea che la Bce presti denaro direttamente agli Stati, cosa che per adesso ufficialmente non fa, anche se ha comprato titoli di stato e ora continua a riacquistarli quando vanno a scadenza. In generale mi sembra comunque che non si tornerà a livelli di libero commercio mondiale di qualche anno fa. Avremo delle regole più o meno flessibili, soprattutto per quel che riguarda le materie prime e i prodotti di alta tecnologia. Gli Usa non a caso stanno incentivando anche la produzione sul loro territorio di microchip.
Questi minori spazi per il commercio mondiale che effetti potrebbero avere in un’Europa che, come ha già avuto modo di dire in una precedente intervista, rischia di subire i contraccolpi di uno scontro tra Stati Uniti e Cina e in cui la Germania intrattiene rapporti forti con Pechino?
La Cina è diventata il miglior cliente della Germania e viceversa. Se il mercato globale si chiudesse avrebbero entrambi da perdere. L’Italia, invece, riuscirebbe un po’ ad avvantaggiarsene.
In che senso?
Le nostre imprese sono molto versatili, già abbiamo visto in questi mesi che se i cinesi non riescono per i lockdown o altre ragioni a far arrivare alcuni loro prodotti, una soluzione riescono a trovarla, anche se magari un po’ più costosa. Altri sistemi produttivi sono più rigidi e non possono fare altrettanto. Magari finiscono poi per rivolgersi alle aziende italiane.
La prossima settimana sono attese le decisioni sia della Fed che della Bce sui tassi. Lei cosa si aspetta?
Mi sembra che alla Fed non sappiano più cosa fare, perché pur avendo alzati i tassi in misura considerevole l’inflazione non sta scendendo e, considerando che sul mercato del lavoro ci sono più posti disponibili che persone in cerca di occupazione, i salari aumentano, rendendo ancora più complicato per la banca centrale raggiungere il suo obiettivo. Penso, quindi, che la Fed rallenterà la crescita dei tassi, tornando a un rialzo dello 0,5%, anziché dello 0,75%. La Bce, che ha un problema di inflazione diverso, molto più legato al gas, cercherà di far salire ancora un poco i tassi e credo che eserciterà le sue arti persuasive per fare in modo che la Commissione e i Paesi membri trovino una quadra sulle misure per contenere i rialzi dei beni energetici, a partire dal price cap sul gas. È però molto difficile in questo frangente fare previsioni, perché ci sono mutamenti rapidi, da un mese con l’altro, e gli elementi di incertezza sono tanti.
(Lorenzo Torrisi)
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