Almeno per il momento, sullo Xinjiang Pechino può dormire sonni tranquilli. Il Tribunale penale internazionale ha infatti rigettato l’istanza presentata da due associazioni di uiguri in esilio che chiedevano l’apertura di un fascicolo per genocidio. L’esito però, purtroppo, era scontato dal momento che la Corte non ha giurisdizione sulla Cina in quanto Paese non firmatario della Carta di Roma istitutiva del Tribunale. Come ha dichiarato il procuratore capo Fatou Bensouda, gli abusi documentati dalle due associazioni “sono stati commessi esclusivamente da cittadini cinesi all’interno della Cina”.



In verità le due associazioni (East Turkistan Government in Exile e East Turkistan National Awakening Movement) avevano un asso nella manica, essendo state in grado di documentare casi di uiguri rapiti da Pechino all’estero, in particolare nella Cambogia e nel Tagikistan, per essere deportati in patria. Ciò aveva fatto sperare che la Corte agisse sulla base di un suo stesso precedente del 2019, quando aprì un’indagine sui crimini commessi dall’esercito del Myanmar contro i musulmani Rohingya nel territorio del Bangladesh, che è firmatario della Carta. Ma questo escamotage non ha convinto il Tribunale, che però ha lasciato uno spiraglio aperto per una possibile rivisitazione del caso ove fossero presentate alla sua attenzione nuove prove delle responsabilità di Pechino. Prove che gli avvocati degli esuli si sono detti pronti a fornire al più presto. Come ha detto Rodney Dixon, che guidava il team legale delle associazioni, l’emergenza Covid ha impedito loro di raccogliere e inviare all’Aia tutta la documentazione in loro possesso.



Più che una sconfitta quella del movimento per i diritti umani è solo una temporanea battuta d’arresto. Ci sono infatti ottimi motivi per credere che il dossier uiguri rimarrà a lungo in primo piano a livello internazionale, come dimostrano da un lato il moltiplicarsi delle inchieste e dei servizi giornalistici che documentano nel dettaglio il trattamento riservato agli uiguri e ai musulmani di altre minoranze etniche dello Xinjiang e dall’altro le sempre più numerose prese di posizione assunte dall’Occidente.

Il segnale di attenzione più eloquente arrivato in questo periodo vede protagonista persino Papa Francesco, che nel nuovo libro intitolato Ritorniamo a sognare scritto a quattro mani con il suo biografo Austen Ivereigh, fa per la prima volta riferimento ai “poveri Uiguri” definendoli “perseguitati”. Una mossa sgradita a Pechino, che ha risposto per le rime attraverso il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian che ha definito “totalmente prive di fondamento” le affermazioni del Pontefice.



Più recentemente si è mobilitato anche l’Europarlamento, che ha approvato una risoluzione di condanna per quello che è definito “il regime sempre più oppressivo della Cina”, invitata a “porre immediatamente fine alla pratica delle detenzioni arbitrarie senza capi d’accusa, processi o sentenze per specifici episodi criminali degli uiguri e delle altre minoranze islamiche”.

La risoluzione europea presenta particolari motivi di interesse perché si sofferma su un dettaglio relativamente nuovo della condizione degli uiguri, documentato dal Center for Global Policy e parzialmente divulgato dalla Bbc e dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung: il lavoro forzato nei campi di cotone dello Stato. Si tratta di un argomento particolarmente insidioso per la Cina ma anche per le grandi compagnie occidentali acquirenti di quel cotone, in quanto in quella regione si produce il 20% di tutto il cotone mondiale. L’indagine ha accertato che, nel 2018, 570mila uiguri sono stati mobilitati in pieno stile militare per le operazioni di raccolta del cotone. Ma si è anche scoperto che i più noti brand del fashion – inclusi Nike, Adidas e Gap – attingono a piene mani da questo serbatoio.

Ma se la raccolta del cotone non è l’unico tipo di lavoro forzato cui vengono assoggettati gli uiguri, ne è forse la manifestazione più cruda; lo ha riconosciuto un esperto come Adrian Zenz,  senior fellow alla Victims of Communism Memorial Foundation di Washington, per il quale “le implicazioni” di questa prassi “sono di scala storica”.

Ad essersene accorti sono anche i governi di Washington e Londra. Gli Stati Uniti in particolare quest’anno hanno proibito l’importazione del cotone uiguro ed elevato sanzioni contro funzionari del partito comunista implicati negli abusi. Sullo stesso tema pochi giorni fa è intervenuto anche il Foreign Office con una dichiarazione di Nigel Adams per il quale “le prove del lavoro forzato degli uiguri nello Xinjiang sono credibili e preoccupano molto il governo della Gran Bretagna”.

La condizione degli uiguri naturalmente ha attirato l’attenzione delle Nazioni Unite: in particolare presso la Commissione per i diritti umani è stata formulata da parte di 39 Stati membri una esplicita dichiarazione di condanna. Nel testo si fa riferimento alle “severe restrizioni della libertà di religione e di credo, della libertà di movimento, di associazione e di espressione” ai danni degli uiguri.

Parlare di uiguri, però, significa soprattutto evocare i campi di internamento, veri e propri gulag con torri di sorveglianza e filo spinato di sovietica memoria, in cui sono reclusi da uno a due milioni di normali cittadini che hanno la sola colpa dell’appartenenza etnica e religiosa. Così facendo Pechino persegue il disegno di sradicare la cultura degli uiguri indottrinandoli e “rieducandoli” secondo i parametri del buon comunista. Per raggiungere questo obiettivo ogni mezzo è considerato lecito, comprese le separazioni familiari e le torture ad hoc come il tentativo di far bere alcol o mangiare maiale agli internati.

Anche per chi rimane fuori dal circuito dei campi la vita è resa impossibile. Un sistema di videosorveglianza capillare e tecnologicamente sofisticato provvede a tracciare ogni movimento e a far scattare i controlli di polizia ad ogni assembramento ritenuto sospetto. Sono state addirittura installate in alcune città dello Xinjiang telecamere ad alta risoluzione per il riconoscimento facciale che, attraverso complessi algoritmi, sono in grado di individuare gli uiguri dai loro tratti somatici.

E c’è infine il dato brutale delle sterilizzazione forzata delle donne, vera e propria atrocità a cui probabilmente pensava il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo quando ha definito la situazione “la macchia del secolo”.

L’attenzione sugli uiguri, insomma, non manca nel mondo e vi è chi come l’amministrazione Trump ha battuto insistentemente su questo tasto per evidenziare le derive totalitarie di Pechino. Che alla voce grossa della superpotenza numero 1 si aggiunga ora quella del Pontefice, degli europarlamentari e di alcuni governi particolarmente sensibili lascia credere che il tema rimarrà in primo piano anche nel prossimo futuro. A tal proposito è facile attendersi dalla nuova amministrazione Biden prese di posizione non meno dure di quelle trumpiane. Non si possono riporre aspettative invece su organismi internazionali quali l’Onu e il tribunale dell’Aia, limitati dal gioco dei veti o da difetti di giurisdizione.