Mario Draghi ha un problema. Non è la guerra, e neppure il Covid, il rialzo dei prezzi, il Pnrr, il decreto spiagge e compagnia bella. L’intoppo del presidente del Consiglio si chiama Parlamento, se non la politica nel suo complesso. Il problema era già emerso con altri governi tecnici, tipo quello di Mario Monti: dall’alto della loro inarrivabile statura di salvatori della patria, i premier delle maggioranze di emergenza nazionale hanno sempre considerato i partiti come degli scendiletto di lusso, destinati a essere calpestati a piacere del padrone di casa. Obbligati a stare assieme in nome del “o così o si vota”, i partiti dovrebbero limitarsi a prendere atto di ciò che decide l’illuminato premier di turno, e possibilmente passare il resto del tempo a tacere.
La storia si ripete anche con il Draghi ultima versione, esasperato dal fatto che la politica osa discutere se le condizioni poste dall’Unione Europea per concedere i soldi del Pnrr siano davvero nell’interesse dell’Italia. Prendiamo i balneari. Nessun Paese europeo ha uno sviluppo costiero pari a quello italiano e nessuno ha un’industria della balneazione come la nostra, fatta di generazioni di famiglie che vivono nella gestione dei bagni marittimi e hanno sviluppato un rapporto con i vacanzieri che è alla base del successo turistico italiano. Il modello nostrano di sedia-lettino-ombrellone-bagnino non ha uguali. Applicare in modo pedissequo la direttiva Bolkestein alle spiagge significa stravolgere un modello di accoglienza, mettere sul lastrico chi vive di questa industria e assicurare un peggioramento dei servizi offerti ai bagnanti.
Sarà lecito discuterne o no? Per Draghi il dibattito è un intoppo. Le esigenze delle persone e dell’economia reale sono nulla davanti all’imperativo di fare le riforme come vuole Bruxelles “altrimenti perdiamo 200 miliardi di euro”. È questo il senso del Consiglio dei ministri lampo convocato ieri alle 17, riunitosi alle 18 e terminato alle 18,10. O si fa come dico io – questo è stato il succo delle comunicazioni di Draghi, unico punto all’ordine del giorno della riunione – oppure pongo la fiducia mettendo tutti a tacere. Il modello Draghi è: il premier decide, il governo approva, il Parlamento ratifica senza battere ciglio. In sostanza, i “pieni poteri”.
Non succede solo per il Pnrr. Le comunicazioni al Parlamento sulla situazione in Ucraina non sono state accompagnate dal voto. Quello che per Giuseppe Conte sembrava uno spartiacque dell’azione di governo contro il riarmo si è dimostrato una pistola ad acqua. Ora il tempo stringe per il provvedimenti legati al Pnrr, le cose non vanno come dovrebbero perché i partiti vogliono più tempo per discutere del decreto Concorrenza. D’altra parte, loro tra qualche mese dovranno rendere conto agli elettori, mentre Draghi deve il suo incarico alla tecnocrazia e non al voto popolare.
Sarà fiducia, dunque. È la riprova che questo governo fa sempre più fatica a stare in piedi. Il collante della primavera 2021 si è sciolto. Il che è controproducente per lo stesso Draghi: più il premier usa il Pnrr come una clava, più si indebolisce. E se qualcosa andasse storto sul cammino della fiducia, il capo del governo cadrebbe in modo rovinoso. Oggi gli scogli sono sulle spiagge. Domani toccherà al catasto. Ulteriori intoppi seguiranno: sono 102 gli obiettivi da centrare nel 2022.
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