Che i nordici, scandinavi in particolare, abbiano un problema con l’alcool è un fatto noto, lo è anche che abbiano concezioni sociali e morali un po’ diverse da quelle mediterranee: il danese Thomas Vinterberg (Festen, Il sospetto) mette insieme le due cose e realizza un film dalla premessa curiosa che, prima di essere presentato alla Festa del cinema di Roma, ha già vinto un paio di premi a San Sebastian, quello di miglior film a Londra oltre a essere scelto da Cannes nell’edizione fantasma di quest’anno.



Un altro giro (Another Round) racconta di quattro amici professori che più o meno delusi dalla vita cercano di verificare una teoria: che la vita sia migliore con una costante, per quanto piccola, dose di alcool in circolo nel sangue. Ovviamente la teoria è una cosa, la pratica è un’altra.

La sceneggiatura scritta da Vinterberg con Tobias Lindholm però non ne vuole fare un atto d’accusa verso le dipendenze, non procede lungo i sentieri del cinema sociale, ma cerca attraverso l’alcool e la sua funzione collettiva, ricreativa – sottolineando però il limite tra uso e abuso – di costruire una commedia drammatica che rifletta sulla crisi di mezz’età del maschio scandinavo.



È un percorso interessante perché mette in luce le fragilità del maschio, espone i limiti della mascolinità comunemente intesa in un modo franco e aperto che non è comune nella cultura sud-europea e allo stesso tempo riflette sulle radici di certi costumi senza moralismi, come il bel finale mostra. Il problema di Un altro giro è che non è all’altezza di quel finale, di quella vitalità, ed è un problema tanto drammaturgico che di regia.

Perché a fronte di un atteggiamento cautamente libertario (ma mai libertino, siamo sempre dalle parti del credo luterano), tutto il film è costruito seguendo il determinismo drammatico, l’ordine schematico del racconto, dei suoi significati e del modo di agire sulle emozioni dello spettatore, in un modo non gridato come altri film del regista, ma preordinato e quindi prevedibile (d’altronde, i luterani non credono nel libero arbitrio); anche stilisticamente, il film non esce dalla sua gabbia, quella del Dogma ’95 per la precisione (creato da Vinterberg con Lars Von Trier) fatta di macchina a mano sempre in movimento, sequenze brevi e nervosamente montate, un senso di improvvisazione istintiva – che funziona in virtù di bravi attori come il sempre ottimo Mads Mikkelsen -, ma soprattutto la ricerca costante dell’effetto, dello stupore.



Adattare quello stile a un racconto che va da altre parti, che vorrebbe sondare altri territori è un esperimento, come quello dei protagonisti che non produce risultati (a differenza di Von Trier che al di là del gusto personale, ha una capacità di inventare e provare a reinventarsi molto più interessante), se non un senso di stanchezza, di vecchiaia intellettuale negata, di giovanilismo fuori tempo massimo. Un esperimento che quando arriva a un punto vivo (il già citato finale) è ormai troppo tardi.