È passato un anno dal voto di fiducia del Parlamento al Governo Conte-2. Fare un bilancio complessivo sull’efficacia delle iniziative adottate dall’Esecutivo è alquanto problematico, se non altro per l’imprevedibile irruzione dell’effetto Covid che ha prodotto uno sconvolgimento dei parametri di valutazione dei dati economici e delle regole utilizzate per orientare le politiche economiche e di bilancio dei Paesi aderenti all’Unione europea.



Al di là degli aspetti coreografici che hanno fatto da contorno alla nascita del Conte-2, in particolare il proposito di impedire un’ondata autoritaria dai tratti neofascisti incarnata da Salvini e la promessa di un new deal ecologista, l’iniziativa del nuovo esecutivo è stata caratterizzata da una sostanziale continuità delle politiche economiche adottate dal precedente Governo. Non solo per l’esplicito intento di dare continuità ai tre suoi provvedimenti simbolo (il Decreto dignità, Quota 100 e il reddito di cittadinanza), ma per l’intera impostazione della politica economica, con la richiesta all’Ue di autorizzare l’ennesimo ampliamento dei vincoli per il deficit e il debito pubblico per finanziare un’ulteriore espansione della spesa corrente. Persino il principale provvedimento adottato con la Legge di bilancio 2020, la riduzione del cuneo fiscale con l’introduzione di nuove detrazioni sul reddito per una platea più ampia dei contribuenti rispetto a quelli che usufruivano degli 80 euro mensili del bonus Renzi. Un provvedimento che assomiglia molto alla proposta di flat tax predisposta dagli esponenti governativi della Lega nel periodo immediatamente precedente alla crisi del Governo giallo-verde.



Una continuità assicurata, senza troppe obiezioni, dalle Autorità dell’Ue grazie all’efficace ricostruzione di un asse privilegiato con le forze politiche europee che hanno sostenuto la nascita della nuova Commissione europea presieduta dalla Ursula von der Leyen, favorito dagli esponenti del Partito democratico. Una svolta pro europeista destinata ad avere un peso rilevante nelle scelte adottate successivamente dalle Istituzioni comunitarie per fronteggiare gli effetti economici dell’emergenza sanitaria.

Nonostante le manifestazioni di ottimismo del presidente Conte, nella doppia versione 1 e 2, i numeri di queste politiche sono stati fallimentari, con una repentina inversione del ciclo economico, precipitato in un’aperta recessione, e nell’esaurimento della crescita dell’occupazione dei 4 anni precedenti.



L’emergenza Covid ha colpito un Paese in grandi difficoltà, ma nel contempo ha fornito una sorta di ombrello protettivo per l’azione del Governo. Non solo per l’esigenza di assicurare una concreta solidarietà alle iniziative dell’esecutivo in un contesto straordinario, ma per l’avvento di tre ulteriori fattori: l’impossibilità di valutare gli interventi sulla base di parametri esclusivamente economici; i provvedimenti adottati dalle istituzioni dell’Ue che hanno sospeso i vincoli per i bilanci pubblici e consentito ai Governi l’ampliamento della spesa pubblica; il conseguente rafforzamento del ruolo dello Stato elargitore di risorse verso le varie istanze dei ceti produttivi e sociali. Tre fattori, abbondantemente sfruttati anche in termini di comunicazione, che hanno rafforzato il ruolo dell’esecutivo e la stessa figura del presidente del Consiglio. Anche grazie all’efficacia delle iniziative portate avanti per favorire l’intesa sul Recovery fund valorizzando al meglio l’asse delle relazioni europee costruite nella fase precedente.

Ma, confidando che la nuova fase dei contagi da Covid non comporti l’esigenza di un ripristino delle misure di lockdown, possiamo considerare sostanzialmente esaurito l’effetto virtuoso, almeno per il Governo in carica, dei fattori descritti. Il tema da svolgere diventa quello di accelerare il più possibile la ripresa economica facendo leva sulla spinta di nuovi investimenti pubblici e privati e sulla modernizzazione di interi comparti dei servizi, anche grazie alle risorse messe a disposizione dell’Ue. Una trasformazione che comporterà cambiamenti profondi nel mercato del lavoro in termini di fabbisogni professionali e di mobilità dei lavoratori. Allo stato attuale sono ben chiari i punti di debolezza della governance che dovrebbe guidare il cambiamento: un’amministrazione ferraginosa e incapace di mobilitare le risorse pubbliche e private disponibili; la scarsa capacità di attrarre gli investimenti delle aree più deboli del Paese; le politiche attive del lavoro poco o per nulla incisive nel ridurre le criticità del nostro mercato del lavoro e per soddisfare i fabbisogni delle imprese e delle persone.

Ma sul come rimediare queste lacune i buoni propositi sono smentiti dalla qualità degli interventi messi in campo: con il pletorico accompagnamento di una mole spropositata di provvedimenti attuativi successivi; l’eccesso delle risorse indirizzate a sostenere i redditi in una logica di difesa dell’apparato produttivo esistente, rispetto a quelle da destinare al sostegno delle nuove attività; la pretesa di guidare i cambiamenti con una serie di norme e di vincoli rivolti a condizionare in modo dirigistico i comportamenti delle imprese e delle parti sociali; l’ingestibile proliferazione di proposte di riforma fiscale interne alla compagine governativa (due modelli di riforma dell’Irpef, la riduzione generalizzata del cuneo fiscale ovvero limitata alle aree meridionali, l’assegno unico per i figli utilizzando per lo scopo le attuali detrazioni fiscali e gli assegni familiari per lo scopo). Queste ultime prive di copertura e palesemente incompatibili tra loro.

L’autoreferenzialità dell’esecutivo è in buona parte dovuta alla necessità di mediare le rilevanti divergenze interne alla maggioranza che lo sostiene, che ha trasformato in un inutile rito il lavoro della commissione Colao e la consultazione degli Stati generali. Ma è anche all’origine del sovraccarico di statalismo e di assistenzialismo, e di crescita della spesa pubblica corrente, che ha caratterizzato l’azione dei due Governi Conte. Utile, forse, a garantire la sopravvivenza dell’esecutivo in carica, non certo a confortare le aspettative di una rapida ripresa economica.