In estate, l’Accademia Filarmonica Romana, istituzione antica ed interamente privata che deve fare quadrare i conti con un budget limitatissimo, trasferisce le attività musicali dai teatri alla propria sede centrale: una villa rinascimentale, nel cuore di Roma, con giardini lussureggianti da ricordare quelli di Alcina di Händel. Tra alberi secolari di alto fusto e piante anche tropicali, ci sono due piccoli spazi per la musica: uno al chiuso, un vero e proprio auditorio simile a quello che Benjamin Britten e Peter Pears fecero costruire accanto alla loro casa a Aldeburg nel Suffolk, e uno all’aperto, frutto della fantasia del regista Denis Krief. In estate si svolge un piccolo festival (due concerti per sera, uno alle 20 ed uno alle 21.45, con la possibilità di uno snack nell’intervallo, preparato e servito da abili siriani).
Il luogo si trasforma in veri e propri giardini delle delizie. Quest’anno, il festival, intitolato Stupore, si estende dal 26 giugno al 6 luglio ed include musica classica, contemporanea, jazz ed etnica. In collaborazione con gli istituti di cultura presenti a Roma offre un panorama di recenti sviluppi in Corea, Iran, Giappone, Irlanda, Colombia, Bulgaria e Stati Uniti. Non manca la sinfonica grazie alla Orquesta Filarmonica di Medellin ed all’Orchestra Juni (la formazione giovanile dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Come ogni anno, particolare attenzione viene data alla musica del Novecento e a quella dei giorni nostri.
In questo contesto, particolarmente significativo il concerto del 3 luglio, dedicato in gran misura a Michele Dall’Ongaro, compositore ed organizzatore musicale oggi alla guida dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Occorre fare una premessa. Nel 2001, in occasione del centenario della morte di Verdi, su impulso di Giorgio Battistelli, allora direttore artistico della Società Aquilana dei Concerti Baratteli, quattordici musicisti realizzarono un progetto di ‘rileggere’ in chiave contemporanea altrettante opere tramite melologhi in cui la voce recitante fosse quella dell’attore Vittorio Sermonti. Un Verdi ‘da camera’ per celebrazioni in piccole città, non in grado di allestire (o importare da teatri più grandi) opere del compositore, e soprattutto per trasmissioni radiofoniche. Ne emerse un vero caleidoscopio di cui Gila, Mia Gilda (per non dire Rigoletto) di Michele Dall’Ongaro è uno dei tasselli.
E’ un melologo che ha occupato la seconda parte della serata. Richiede un piccolo organico (il quartetto d’archi Henao) ed un contrabasso (Antonio Sciancalepore). L’ensemble era diretto da Erasmo Gaudimonte. L’attore era Alfonso Veneroso. Del quartetto Henao (William Chiquito, Soyean Kim, Stefano Trevisan, Giacomo Menna, tutti strumentisti dell’orchestra sinfonica di Santa Cecilia) ci siano già occupati su questa testata, recensendo il ciclo di quartetti al Teatro di Documenti, nonché il ciclo Debussy alla Filarmonica Romana.
Il melologo ‘racconta’, in 50 minuti, l’opera verdiana, soffermandosi molto sul primo quadro del primo atto in cui si dipinge il clima licenzioso e corrotto della Corte di Mantova ed il carattere duplice di Rigoletto. La scrittura musicale è contemporanea ma piena di citazioni ed echi della partitura verdiana. Pur rispettosi di Verdi, sia la narrativa sia la parte musicale hanno tratti ironici; ad esempio, il libretto di Francesco Maria Piave viene ‘narrato’ con gli occhi di oggi. Dall’Ongaro regala un Verdi contemporaneo e cameristico.
È, in un certo senso, ‘verdiano’ anche il quartetto per archi n. 5 di Dall’Ongaro, con cui è stata aperta la serata. Lo si avverte specialmente nel rapido attacco iniziale e nella delicata conclusione in diminuendo. Violenza quasi nell’attacco per poi andare verso una musica sempre più dolce.
Il quartetto di Dall’Ongaro in unico tempo, è stato seguito da un raro lavoro cameristico del Cigno di Busseto: il quartetto in mi minore del 1873, Il Quartetto esprime chiaramente l’intenzione verdiana di definire una diversa pratica musicale, che sintetizzi nella forma classica un gusto e uno stile tipicamente italiani, alieni da qualsiasi pedissequa imitazione. Particolarmente significativa, da questo punto di vista, la scelta di concludere la composizione con una Fuga, che non a caso era la parte cui il compositore teneva di più e per la quale, come si è visto, dettava anche suggerimenti esecutivi. Nel Quartetto la Fuga è stringente, profonda e lieve al tempo stesso e l’ultimo movimento diventa, semplicemente, uno Scherzo-Fuga in tempo “Allegro assai mosso”, con il soggetto affidato al secondo violino chiamato a suonare pianissimo, staccato e leggero. Inevitabile pensare al grandioso Fugato che conclude Falstaff, quello in cui si dice che “Tutto nel mondo è burla”, lungo un contrappunto di voci e strumenti in 14 parti. Polifonia come ironia: vent’anni prima della sua ultima parola operistica, Verdi aveva già trovato la strada.
Ed il piccolo festival ci ha davvero ‘stupito’.