Dodici ore di turno, all along the watchtower, lungo le torri di guardia. Osservo il volto di un uomo, portato in rianimazione dopo aver cercato di impedire ad un un infarto di strappargli di dosso la vita. Guardo il volto dei miei colleghi, che tanto hanno fatto per lui. Degli infermieri, solidi, sempre in prima linea, che hanno lottato con noi e davanti a noi. Guardo poco più in là, in un’altra sala, un malato di Coronavirus, un altro uomo che sta combattendo, attaccato alla vita come può.
Il mio malato, lo saprò più tardi, non ce la farà.
Torno nel mio reparto, scendo di nuovo in pronto soccorso, incontro gli altri colleghi che lavorano in un reparto allestito in tutta fretta per accogliere i ricoverati infetti da questa assurda, irrefrenabile, epidemia.
Siamo tutti stanchi, stressati, sfiniti. Eppure c’è come un sottile filo rosso che ci lega, una nuova consapevolezza dentro questo mestiere strano che ci è capitato tra le mani.
Un’amica e collega mi manda un messaggio, pieno di speranza e di fede: “amare quello che abbiamo incontrato per dire sì alla forma con cui ci sta venendo incontro”. Com’è difficile, stare dentro a queste circostanze, restare in gioco, nonostante tutto.
In questi giorni ho in mente Anthem, canzone bellissima di Leonard Cohen: Suona le campane che possono suonare/dimentica l’offerta perfetta/c’è una crepa in ogni cosa/è da lì che passa la luce”. E così, Signore, cos’è questa forma della realtà con cui ci vieni incontro, piena di crepe? È questo che stiamo vivendo adesso, questo il significato di ciò che accade?
E allora dimentico l’offerta perfetta, cammino come posso.
Cerco la luce che Lui non fa mancare, mai.
(Fausto Leali)