A un mese dal suo giuramento, Mario Draghi, dopo aver annunciato di far parlare solo i fatti e di non promettere nulla che non possa mantenere, è uscito da palazzo Chigi venerdì scorso per visitare il centro vaccinale di Fiumicino e lanciare “un messaggio di fiducia e forza” (queste le sue parole). Innanzitutto proprio sui vaccini: ci sono i primi segni di un’accelerazione, ma Draghi vuole cambiare marcia, saranno utilizzati tutti gli spazi disponibili, si andrà avanti anche con AstraZeneca in attesa delle indagini in Italia e in Europa, verrà prodotto un vaccino in casa, l’obiettivo è triplicare le somministrazioni, solo così sarà possibile evitare altri lockdown come quello di Pasqua che ripete le chiusure di Natale.
In settimana Draghi sarà a Bergamo, altra tappa di una scelta comunicativa meno fredda e distante di quella che era stata immaginata e annunciata da parte dei suoi stessi collaboratori. La presenza fisica, la partecipazione a eventi quotidiani, il farsi conoscere così com’è da una platea più ampia di cittadini non è affatto un cedimento allo spirito di questo tempo populista, e smentisce chi ha pensato che voglia proteggersi sotto i veli del mito. I sondaggi confermano che siamo in piena luna di miele, ma non dura molto.
La pandemia mette in primo piano l’emergenza anche per le scelte economiche. C’è da impiegare i 32 miliardi di euro in disavanzo già autorizzati dal Parlamento nel gennaio scorso. Draghi ha detto che riguarderanno “una platea più ampia” soprattutto nel finanziamento degli strumenti di contrasto alla povertà, mentre per i lavoratori autonomi e le partite Iva i contributi verranno erogati “in forma più semplice e immediata senza criteri settoriali”. Tuttavia l’extra deficit non sarà sufficiente e il Governo si prepara a chiedere di più: non sappiamo quanto, ma almeno 10 miliardi di euro, forse fino a 15 miliardi. Ciò avverrà insieme al Documento di economia e finanza anche perché il nuovo deficit dovrebbe diventare una sorta di anello di congiunzione tra emergenza e ripresa, insomma tra debito cattivo e debito buono per usare la definizione data dallo stesso Draghi. Sarà senza dubbio l’occasione per verificare se arriva una svolta nella gestione del bilancio pubblico.
La settimana scorsa sono stati lanciati alcuni segnali interessanti a cominciare dall’accordo con i sindacati sui contratti del pubblico impiego (con aumento medi di 107 euro mensili) collegati a un patto per la produttività che introduce cambiamenti importanti nell’organizzazione del lavoro, all’insegna di una maggiore flessibilità. Il ministro Renato Brunetta punta molto sulle nuove linee guida introdotte con il consenso delle tre principali organizzazioni sindacali. Una conferma del nuovo clima di collaborazione (non di concertazione) con le parti sociali, tuttavia c’è ancora molto da fare, come ha ammesso lo stesso Draghi.
Il pubblico impiego resta più garantito di quello privato (si pensi alla stabilità del posto di lavoro), ma soprattutto la Pubblica amministrazione è ingessata da norme e da culture formalistiche che non mettono in primo piano il risultato. Draghi ha parlato di “fuga dalla firma”, Brunetta promette che comincerà una nuova fase in cui la responsabilità dei funzionari e dei pubblici ufficiali sarà valorizzata. Se è così, si tratta di un passo avanti importante sulla strada di una riforma strutturale.
Anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha annunciato novità rilevanti. Il blocco dei licenziamenti viene prorogato fino a giugno, ma si comincerà subito a preparare un’uscita mirata e progressiva, partendo dalle aziende che sono da tempo in cassa integrazione straordinaria che non hanno alcuna possibilità di riaprire. E poi via via verranno esaminate tutte le situazioni in cui diventerà necessario ridurre il personale. Ciò richiede senza dubbio un intervento consistente che va dall’indennità di disoccupazione al funzionamento delle strutture per la ricerca del lavoro. Le agenzie attuali non funzionano e i navigator che sembravano fin dall’inizio una stramberia grillina, si sono rivelati un fallimento costato 180 milioni di euro. Vedremo se Orlando prenderà il toro per le corna. È un passaggio fondamentale per collegare l’emergenza al piano per la ripresa (seguiamo il consiglio di Draghi e usiamo l’italiano).
Il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini presenterà un “piano semplificazioni” per riaprire i cantieri, partendo da quelli che possono entrare subito in funzione. Impegno lodevole quanto necessario. Se ne parla da almeno due anni, lo aveva promesso il Conte primo e poi il Conte bis ed erano stati approvati provvedimenti chiamati “sblocca cantieri”. Forse sarà la volta buona. Aspettando le vere novità per quello che dovrebbe diventare il primo volano del rilancio economico. Il nodo da sciogliere si chiama “modello Genova”, espressione simbolica per definire un metodo nuovo basato su due pilastri: un ampio consenso sulle grandi operare da realizzare e nuove procedure meno burocratiche, più efficienti, uscendo dalla gabbia di impedimenti (dai no ideologici ai vincoli giudiziari) che hanno impedito all’Italia di utilizzare gran parte dei fondi strutturali europei. Giovannini ha detto che “non è replicabile”, né possono essere i commissari l’unica soluzione. Ma non ha indicato qual è il suo modello. Il vero incubo è che si ripeta la cronica incapacità a investire da parte della mano pubblica. Il ministro ne è consapevole, tuttavia qualche ombra comincia a calare sul “cammino della speranza”.
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