Caro direttore,
ho seguito con grande attenzione il dibattito che si è sviluppato sulle pagine del suo giornale in merito alla questione dell’esame di stato. Ho trovato tutti gli interventi mossi da una sincera passione e da una chiarezza importante circa le criticità e le dinamiche dell’intero sistema. Svolgo da dieci anni la funzione di collaboratore del dirigente in un liceo statale – classico, linguistico e scientifico – con circa 1300 studenti e, in questa veste, ho seguito gli esami di stato delle diverse annate, da quelli nati nel 1996 fino agli ultimi del 2005, incontrando numerosi presidenti di commissione e commissari. Il tempo mi ha aiutato a mettere a fuoco alcune considerazioni che vorrei condividere al termine di questo mese di esami.



La Costituzione prescrive l’esame di stato all’art. 33 in quanto conclusione del secondo grado di istruzione. Tale prescrizione dovrebbe adempiersi in armonia con il Profilo Educativo Culturale e Professionale di ciascun indirizzo di studi. In virtù di tale combinato disposto, il primo scopo della Maturità dovrebbe quindi essere quello di vagliare lo spirito critico dello studente, obiettivo cardine di tutto l’ultimo triennio. Il problema, secondo me, nasce qui: per vagliare uno spirito critico, infatti, bisogna avere una conoscenza critica della realtà. La didattica del triennio della scuola superiore è ancora una collezione di concetti, di idee, di questioni. Sono pochi i colleghi che insegnano a ragionare. Mi è capitato, a titolo di esempio, di dialogare con uno studente preparatissimo in storia. Alla mia domanda, un po’ provocatoria, se – a parere suo – la Seconda guerra mondiale fosse finita nel miglior modo possibile, il ragazzo è andato in crisi. Nessuna delle cose che sapeva gli serviva ad entrare in relazione con me sulla domanda che avevo posto. Possiamo dunque parlare di esame quanto vogliamo, ma è l’approccio didattico che oggi non funziona.



La didattica non funziona perché spesso mancano le competenze di base. Se volessimo davvero scardinare tutto l’impianto banalizzante della scuola, basterebbe introdurre un esame in seconda – al termine dell’obbligo scolastico – con una commissione totalmente esterna, orientato a saggiare 5 competenze: comunicazione in lingua madre, comunicazione in lingua straniera, orientarsi nel tempo, orientarsi nello spazio, individuare e formalizzare i problemi di ordine scientifico e matematico. Io le assicuro, direttore, che sarebbe – mi consenta il termine – “una strage”. Emergerebbe come questi ragazzi sono stati talmente tenuti al riparo dalla realtà dalle proprie famiglie che è stato impedito loro di acquisire una vera conoscenza.  Paradossalmente se la caverebbero meglio le persone che hanno sofferto e, dunque, imparato.



Se c’è un problema di ordinamento scolastico, che impatta drammaticamente sull’esame e che riguarda le competenze di base del biennio e la formazione dello spirito critico nel triennio, è anche vero che questo esame rischia di essere valutato in modo abnorme dalle famiglie e dalle nonne – che portano fiori, torte, spumante – e in modo imbarazzante da uno Stato che permette che l’attenzione degli studenti del quinto anno sia già rivolta ad alcuni test universitari che – come si sa – possono essere svolti durante l’ultimo o addirittura il penultimo anno di scuola superiore. O si fa il liceo di quattro anni, prendendosi le proprie responsabilità e armonizzandolo diversamente con la scuola secondaria di primo grado, o si lasciano in pace gli studenti.

Perché la serietà si costruisce con le decisioni dell’autorità e con l’atteggiamento del singolo. In questo senso è lecito chiedersi a che servono i voti all’esame di stato. Se, come proposto autorevolmente nel dibattito, non sarebbe meglio rilasciare una certificazione articolata e senza frasi fatte (quindi interessante da leggere) delle competenze monitorate in sede d’esame – non in un’ottica lavorativa, bensì di atteggiamento davanti alla vita – completando tale documentazione con un piano di recupero degli apprendimenti che vincolasse i primi esami da sostenere all’Università per accedere alle diverse facoltà. È utopia, certamente. Eppure, chi insegna sa bene quanto servirebbe ai ragazzi e ai docenti, che eviterebbero di trasformare l’esame in una valutazione di quello che hanno fatto loro in quanto insegnanti del consiglio di classe.

Infine, mi permetta una battuta. Ai ragazzi, a quelli che hanno fatto l’esame in queste settimane, che cosa interessa di questo nostro dibattito? Credo nulla. Sono già a lavorare, al mare o in montagna, tornati al loro ghetto e al loro giro in città, senza aver mai pensato che quello che hanno fatto, una volta finito, abbia consegnato loro un altro modo di guardare sé stessi e il mondo. Noi dobbiamo dare parola anche a loro, convincerli che non è vero che nel mondo è già tutto deciso, che c’è spazio per quello che sono e che pensano. Anche in merito alla scuola.

La Maturità, caro direttore, è una cosa bellissima. Mette in moto il cuore, fa venire a galla le persone, mostra la pochezza di alcuni e la grandezza degli altri. Però finisce lì. A volte con i fiori, con il festino per ubriacarsi la sera stessa o qualche giorno dopo. Con la vacanza dove “ci spacchiamo”. Finisce, come tutte le cose della vita. Eppure, io non mi tolgo dalla testa che, a questa generazione, prima o poi sarebbe bello mostrare qualche cosa che continua. Qualche cosa che ti cambia.

 

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