Sono passati quasi 80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, un tempo che corrisponde a poco meno della vita media degli italiani, un tempo lungo abbastanza per suggerire qualche riflessione di ampio respiro su cosa è successo al popolo italico ed in particolare ad alcuni aspetti della sua struttura demografica, e su quali conseguenze possono avere le modificazioni che sono intervenute in questa struttura.
All’inizio della seconda metà del secolo scorso (1951) gli italiani erano poco più di 47.500.000, 23.250.000 uomini e 24.250.000 donne, che sono diventati quasi 59.000.000 all’inizio di quest’anno (28.850.000 maschi, 30.140.000 femmine), con un aumento del 24% praticamente uguale nei due sessi. Il rapporto femmine/maschi era 1,04 nel 1951 ed è rimasto 1,04 nel 2024. In 75 anni quindi la popolazione è aumentata del 24% ma il rapporto di genere è rimasto invariato.
La struttura per età della popolazione è invece cambiata in maniera importante. La tabella 1 e la figura 1 riportano, ogni 10 anni dal 1951 ad oggi, la distribuzione per classi di età quinquennale della popolazione totale.
Tabella 1. Distribuzione per età della popolazione residente al 1 gennaio degli anni indicati. Italia, popolazione totale. Valori in migliaia di persone. Fonte Istat.
Figura 1. Distribuzione percentuale per età della popolazione residente al 1 gennaio degli anni indicati. Italia, popolazione totale. Fonte Istat.
Si osserva il costante spostamento della struttura della popolazione verso le classi più anziane con relativo impoverimento delle classi più giovani. A partire dal 1971 termina la classica forma a piramide della distribuzione per età e la costante riduzione dei nuovi nati riduce di conseguenza la base, trasformando la forma della distribuzione per età da piramide a pumo. Contemporaneamente aumenta, anche in valore assoluto, la quota di popolazione presente nelle età oltre 50 anni.
Si è visto come nei 75 anni esaminati il rapporto tra i generi non si è modificato, con le femmine che prevalgono leggermente sui maschi (F/M= 1,04), ma questa prevalenza femminile non è costante per età. Nelle età più giovani i maschi sono prevalenti, anche in valore assoluto, fino a 25 anni nel 1951 e fino a 45 anni nel 2024, mentre nelle classi di età successive prevalgono le femmine (figura 2).
Figura 2. Distribuzione percentuale per età della popolazione residente al 1 gennaio degli anni 1951 e 2024, separata per genere. Italia. Fonte Istat.
Il cambio di struttura per età della popolazione trova spiegazione sostanzialmente in due fenomeni: da una parte l’andamento delle nascite (figura 3) e dall’altra l’andamento della attesa di vita.
Figura 3. Numero di nati vivi ogni anno nella popolazione residente. Italia, 1951-2023. Fonte Istat.
Le nascite hanno visto un andamento nel tempo che riconosce quattro periodi: un primo periodo di forte crescita (dal 1951 al 1964: da circa 850.000 nati ad oltre 1 milione) seguito da un secondo periodo di altrettanto forte calo (dal 1965 al 1987: da oltre 1 milione a circa 550.000 nati). C’è stato poi un ventennio di quasi stabilità (1988-2008) seguito infine da una nuova forte decrescita (dal 2009 ad oggi, dove si arriva a meno di 400.000 nati).
A riempire di popolazione le classi più mature ha partecipato invece la attesa di vita, in costante (praticamente lineare) aumento in oltre 70 anni sia nei maschi che nelle femmine (figura 4).
Figura 4. Speranza di vita alla nascita, per genere. Italia, 1951-2023 anni selezionati. Fonte Istat.
Gli uomini sono passati dai circa 64 anni del 1951 ai circa 81 del 2023, con un guadagno medio di 17 anni di vita; le donne, che nel 1951 avevano una attesa di vita alla nascita di 67,5 anni, nel 2023 sono arrivate a 85,2 anni con un guadagno medio di poco meno di 18 anni. Fino al 1991 il divario tra uomini e donne nella speranza di vita alla nascita è risultato in aumento (6,6 anni nel 1991 a favore delle donne), dopo di che ha iniziato a decrescere ed al 2023 siamo a 4,1 anni sempre a favore del genere femminile.
Il cambiamento della struttura demografica della popolazione, con l’impoverimento numerico delle classi giovani e l’arricchimento di quelle meno giovani e di quelle anziane, ha ovviamente conseguenze di diversa natura in vari contesti: famiglia, scuola, lavoro, pensione, sanità, assistenza, e così via. Questo cambiamento sarà nel seguito esaminato per un aspetto specifico e cioè per il rapporto tra chi è in età lavorativa e chi ha superato questa età, rapporto che in demografia e statistica prende il nome di indice di dipendenza anziani e che in questo contributo è stato calcolato al contrario (età lavorative/età anziane) e con tre varianti di classi di età: 15-60/60+, 15-65/65+, 20-65/65+ (figura 5).
Figura 5. Rapporto tra la popolazione in età lavorativa e la popolazione in età pensionabile. Italia, 1951-2023 anni selezionati. Fonte Istat.
Questo rapporto così calcolato dice quante persone in età lavorativa ci sono per ogni persona in età da pensione. Senza entrare nel merito di definizioni che nel tempo possono cambiare (cosa considerare come età lavorativa e come età di pensione), l’indicatore mette a disposizione una informazione molto chiara: se nel 1951 per ogni soggetto in età da pensione erano disponibili (in media) 5, 7, o 8 (a seconda delle classi di età utilizzate nel calcolo) persone in età lavorativa, oggi questo rapporto si è ridotto a 1,8 o 2,4 o 2,6 ed è destinato a diminuire ulteriormente, a breve in virtù del continuo allungamento della vita media (aumento degli anziani) ed a lungo (o molto lungo) se prosegue l’inverno demografico che produce sempre meno nascite.
Ne consegue che se quando è stata scritta la Costituzione del nostro Paese (ed in qualche decennio successivo) si poteva ben dire (art. 1) che “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro” anche per via della quota elevata di popolazione in età lavorativa rispetto agli anziani (e non solo), ai giorni nostri probabilmente si dovrebbe dire che “L’Italia è… fondata sul lavoro” dei pochi in età lavorativa e dei molti in attività da pensione, con tutto ciò che da questo può conseguire.
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