Un’amica da Cremona, una giovane donna di fede, con i bimbi piccoli. Tanti conoscenti, poi amici, ricoverati d’improvviso, inghiottiti dai percorsi del coronavirus, della malattia Covid-19, secondo la discesa nei gironi che ci hanno mostrato con coraggio ieri le telecamere di Piazza Pulita.
Quell’ospedale, con pochi posti per urgenze e centinaia di letti necessari. Quell’ospedale, dove è stato ricoverato oggi anche il vescovo, malato anch’egli, ancor più vicino così alla sua gente. Un’amica che si sente circondata, impotente, e non ha il conforto della Santa Messa, che spera che quel che sta vivendo la sua comunità sia di esempio, di aiuto, di sostegno per tutti coloro che potranno vivere la stessa drammatica condizione.
Un sacerdote da Piacenza mi racconta la paura, lo smarrimento quando vede i più cari che si ammalano. Non solo anziani, come scaramanticamente e crudelmente ci diciamo, un po’ vergognosi, o come senza remora sbandierano dagli annunci in tv. Abbiamo ripetuto tante volte come una litania che le condizioni della vita non sono mai un’obiezione, ma semmai un’occasione, che tutto è grazia, che sono “per”, non contro di noi. Poi, la realtà irrompe, sperimentiamo la nostra fragile e spaventata natura di figli, che vorrebbero un grembo in cui accucciarsi, con gli occhi chiusi e le carezze che consolano.
Le parole come slogan non reggono, la ragione pretende risposte di senso. Perché è permessa all’uomo la sventura? Non c’è risposta se non la carezza di un amore partecipe, spalancato, generoso, commosso. E le braccia spalancate, come il giovane papa-Jude Law di Sorrentino, che in ginocchio chiama Dio: “Noi due, dobbiamo parlare”.
Questi giorni scarnificano le abitudini, le false certezze, i progetti, i curricula. Folle e ingiusto fingere che non ci riguardi, che tutto passerà lasciandoci indenni, minimizzare, distrarsi, incuranti, con la pretesa che il nostro diritto a godere sempre e comunque ci esoneri dalla responsabilità. Che è anzitutto risposta di silenzio, di umiltà, e carità.