Sono trascorsi cinquant’anni esatti dalla morte di Giuseppe Ungaretti (1° giugno 1970), grande poeta, non da copertina, però. Il Centro Culturale di Milano ha deciso di incontrarlo, di conoscerlo di nuovo, con un appuntamento dal titolo: “Giuseppe Ungaretti, la vita inscritta nell’eterno” (1° giugno 2020, ore 21, su Youtube, Facebook, www.centroculturaledimilano.it). Una serata che vivrà di un dialogo con poeti e critici letterari e la fondamentale lettura di alcuni suoi versi. Con i poeti Nicola Bultrini e Giuseppe Conte; i critici Roberto Galaverni (La lettura, Corriere della Sera) e Francesco Napoli (Mondadori); l’attrice Laura Piazza. E preziosi contributi dal docufilm Rai Vita di un uomo di Gabriella Sica. Un appuntamento che si propone di andare al cuore dell’itinerario poetico dell’autore provando a tenere una salutare distanza dalla prigionia degli schemi.



Dunque, Ungaretti. Uberto Motta, ordinario di letteratura italiana all’Università di Friburgo, Svizzera, ci aiuta a mettere a fuoco la figura di questo straordinario poeta, proponendoci un percorso non “scolastico”. Un invito a scoprirlo, a riscoprirlo.    

Come definire, individuare, la parola per Ungaretti? La sua parola è tesa a raccogliere l’urto della realtà, percossa anche dagli istanti sereni, quasi a percepirne in essa il segno dell’eterno. Il suo stile è come la sua vita?



Raccolgo solo l’ultima battuta, che pone a tema una questione fondamentale ed insieme elusiva, sfuggente. Mi chiedo in primo luogo se esista un solo stile di Ungaretti, e dunque una sua unica maniera, che accomuna le raccolte poetiche che si sono succedute nell’arco di circa mezzo secolo, e che leggiamo riunite insieme nell’unico volume voluto dall’autore, con il titolo Vita d’un uomo. I filologi e i critici hanno distinto fasi e stagioni, perché questo, in fondo, vuol dire fare critica: distinguere. E però mi sembra che dall’inizio alla fine l’opera di Ungaretti sia il frutto di una medesima mano, che con grande fermezza e ostinazione cerca di restituire l’urto della realtà, ma anche l’emozione e la commozione del soggetto davanti alla realtà, mediante una parola che sia insieme incantesimo e provocazione. Quella di Ungaretti, dall’inizio alla fine della sua parabola, resta una parola proverbialmente “allegra”, abitata cioè dalla letizia dell’esserci, dalla grazia e dallo stupore dell’esserci, che risorge sempre al di là del male, del dolore. L’allegria dell’esserci, partecipi in quanto tali dell’essere: perché, in una prospettiva che forse accomuna Ungaretti e Luzi, prevale la coscienza che la vita è più forte di tutto, di ogni notte e di ogni atrofia. Se il segreto dello stile di Ungaretti è la distillazione del creato, e del vissuto, in essenze primarie, allora mi pare di poter tentativamente concludere che questo stile è la sua stessa sete religiosa in atto.



Non le sembra scomparso dall’orizzonte culturale? Rimane nella scuola ma “a causa” della guerra. È vero? Come mai?

Bella questione. Ungaretti ha avuto e ha tuttora i suoi cultori, i suoi lettori appassionati e devoti. Che trovano in lui piena manifestazione del grande mito romantico del poeta come arpa eolia, che vibra e suona intercettando il soffio misterioso di un vento che giunge da altrove… Aggiungo che dal punto di vista editoriale, Ungaretti è ottimamente provvisto, dal momento che si dispone nella collana dei Meridiani Mondadori di una serie di volumi con il corpus essenziale della sua opera, non solo le poesie, ma anche le traduzioni, i saggi, le lezioni, i quaderni e i taccuini di viaggio… Poi è vero però che il nostro tempo, globalmente inteso, stenta e recalcitra davanti a molti aspetti della sua persona, della sua sensibilità, della sua scrittura… Se dovessi spiegare questo disagio, questa disaffezione, avrei forse il sospetto che, alla radice, al di là di tante schermaglie anche politiche, finiremmo per trovare la pretesa, tipicamente ungarettiana, di assoluto. È il suo platonismo irriducibile, analogico, è il suo eros platonico, che si traduce in uno stile senza mezze misure, con slanci e accensioni che baroccamente squarciano l’orizzonte più cupo, che ci sfidano a un livello che per lo più non siamo più capaci, non abbiamo più la forza o la voglia di sopportare. Ecco, credo che l’Ungaretti che scrive per esempio “Trarresti dal crepuscolo / Un’ala interminabile”, oppure “Si percorre il deserto con residui / Di qualche immagine di prima in mente” sia per molti, oggi, insopportabile.

È forse il più internazionale dei nostri poeti. Nascita e vita, lavoro, in molte città del mondo: cosa gli permise il non sradicamento, facendone forse una figura e una voce attuale di possibilità tra le alternative del cosmopolitismo borghese e la disambientazione contemporanee?

Quante volte Ungaretti ha ripercorso la storia, reale e fantastica, del suo nomadismo… Alessandria d’Egitto, Parigi, Milano, Roma, il Brasile, New York… Ma sta alle scaturigini della sua parabola, poetica ed esistenziale, quanto leggiamo in uno dei suoi testi scolasticamente celeberrimi, In memoria, dove dell’amico Moammed Sceab si dice “suicida / perché non aveva più / Patria”. In un’altra poesia, della sua seconda raccolta, Sentimento del Tempo, Ungaretti si definisce “figlio di emigranti”: per lui che ha celebrato la figura materna – quale emblema della gratuità del nostro essere nel mondo – la patria, la dimensione del paterno è l’orizzonte estremo della ricerca e della conquista. In simile prospettiva, la sua lezione ci può essere un poco d’esempio: abbiamo anche noi come lui, non so se il privilegio o il dramma di non poter dare più per scontate le nostre radici. La risposta alla domanda che Dante si sente rivolgere nel X canto dell’Inferno, chi sono i tuoi padri?, ha smesso di essere ovvia, immediata o automatica. Ma non per questo deve essere elusa: eludere una tale questione è abdicare alla propria umanità o interezza. La “Vita d’un uomo” di Ungaretti, intesa come risoluzione poetica di un’intera esperienza, testimonia questa forza, questa volontà di riconquista e riscoperta dell’io, che è tale solo se, guardandosi allo specchio, scopre accanto al profilo del figlio, dell’erede, l’ombra generatrice del padre (dei padri), del maestro (dei maestri). L’alterità, l’irriducibilità del soggetto ad altro da sé – si dica pure la propria eccezionalità, da cui il “M’illumino / d’immenso” – sono un’alterità, un’eccezionalità in senso proprio “generate”. Nella famosa poesia Italia Ungaretti dice: “Sono un frutto / d’innumerevoli contrasti d’innesti”. Ecco qualcosa per il nostro oggi.

Ancora di letteratura: Ungaretti in un’intervista (ma penso anche in qualche scritto) dice “i miei poeti? Dante, e poi Petrarca ma forse quello che mi ha segnato di più è Jacopone da Todi” (Chi era costui…) Perché secondo lei? Forse per il dolore e per la possibilità nel mondo dell’Amore che Jacopone esprime?

Il riconoscimento o debito d’amore di Ungaretti nei confronti di Jacopone da Todi non è naturalmente passato inosservato, e anzi molti studiosi (penso a Cambon, a Tartaro, a Ossola, a Quiriconi…) hanno riflettuto a questo proposito. Nelle laudi di Jacopone, che conosceva bene e che aveva letto a più riprese, lungo quel percorso di riappropriazione di una propria storia e di una propria memoria o tradizione, Ungaretti trova un esempio, un modello di poesia pura, di poesia sacra, che dà voce alle passioni e alle angosce dell’uomo. Jacopone affascina Ungaretti che giunge fino a scorgere in lui una sorta di fratello maggiore: Jacopone è quel poeta che Ungaretti vorrebbe essere, insieme colto e popolare, raffinato, costruito ed universale, poeta che guardando dentro di sé riscopre il dramma di ogni creatura, che è costretta, prima o poi, sempre, a fare i conti con la propria pochezza, con la propria crisi, con il proprio annichilimento. Da un lato l’annichilimento dell’uomo che, come dice Ungaretti, si scopre protagonista ma non padrone del proprio destino, e dall’altro l’esperienza o scoperta della preghiera: i due poli della dialettica jacoponica valgono, in fondo, anche per Ungaretti, che quell’annichilimento tocca con mano, nella sua tragica concretezza, quando si ritrova al fronte, durante la prima guerra mondiale, e di qui, dal naufragio di un’intera civiltà e di un’intera cultura, muove verso la luce, verso ciò che ci abbaglia e, abbagliandoci, ci strappa al nostro niente. In una delle lezioni tenute a San Paolo del Brasile, Ungaretti insiste proprio su questo concetto: dobbiamo reimparare a usare le parole come faceva Jacopone, affinché la nostra poesia, come quella di Jacopone, possa avere il miracoloso effetto di riportare la luce nel nostro buio, nella nostra notte, e cambiarci. Perché, nel buio del nostro niente, ciò che ha il potere di cambiarci è soltanto la certezza che la luce c’è.

Ungaretti sembra emozionale, anche da come legge i suoi versi quando può capitare di trovare su Youtube un filmato su di lui. Ungaretti ha pensiero? Qual è in sintesi e su cosa insiste?

Il pensiero del poeta Ungaretti si può cogliere, si può toccare con mano ad apertura di libro, pescando liberamente tra le pagine delle sue raccolte, o tra i testi che si conoscono a memoria. Da questo punto di vista, è un autore assai facilmente e proficuamente antologizzabile, nella misura in cui ogni sua poesia ha vita a sé, come un assoluto, ed è al tempo stesso specchio in cui si riflettono le qualità dell’insieme. Io ritrovo, per esempio, il pensiero di Ungaretti nel finale di La notte bella: “Ora mordo / come un bambino la mammella / lo spazio // Ora sono ubriaco / d’universo”. Ogni tessera o cellula è qui ganglio vitale di un cuore che percepisce il proprio battere, e lo racconta. Ora mordo, ora sono ubriaco: s’impone, in primo luogo, il primato del presente, del qui e ora appunto, come dimensione fondamentale dentro cui, ad ogni istante, l’individuo mette in gioco il proprio destino. Ungaretti, pur così attento, leopardianamente, al valore della memoria, è il poeta dell’adesso: e c’è quel gesto di voracità – mordo / come un bambino la mammella / lo spazio – che testimonia la fame, la sete di realtà, di vita, di mondo, di carne che Ungaretti sente urgere dentro di sé, e che gli si impone come dato irrinunciabile della nostra bellezza. Vivere non è occupare lo spazio, è morderlo: il pensiero di Ungaretti mi pare qui splendidamente metaforizzato, e si vorrebbe augurare a tutti di riuscire a porsi nei confronti della vita, del qui e ora in cui ci troviamo, con il medesimo slancio con cui il bambino si proietta verso il seno materno. Allora non saremmo più schiavi, ma liberi. Allora al nostro desiderio, alla nostra sete verrebbe in cambio una tale sovrabbondanza di nutrimento, da lasciarci ubriachi. “Ora sono ubriaco / d’universo” ha la stessa forza, la stessa icasticità di “e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Naufraghi, ubriachi: il pensare del poeta, come già diceva Aristotele, si risolve nell’icastica evidenza di un’immagine.

Ungaretti e i giovani. Spesso lo si vede attorniato, in dialogo con essi, felice. Come nelle immagini in cui è circondato dai ragazzi del 68 a Venezia o in come parla dell’Università nei giorni delle sue ultime lezioni. Cosa colse in loro, cos’era la giovinezza per lui?

La giovinezza è per Ungaretti la condizione spirituale e sentimentale più idonea alla poesia; la giovinezza è per lui metafora del pensiero aurorale, avventuroso, libero, pronto al viaggio, che ancora non è stato irrigidito dalle esigenze della logica, dell’economia, della funzionalità. Giovinezza e felicità vanno, in effetti, di pari passo, come due condizioni primordiali o archetipiche, prima ancora che anagrafiche o sentimentali, che ben colgono quella freschezza, quella nudità che la scrittura ungarettiana cerca e alimenta, dall’inizio fino alla fine. Direi anche quella solitudine fragile, esposta, carica di attesa e di promesse, che è o dovrebbe essere dei giovani. E che è di Ungaretti. L’ultimo suo libro poetico si intitola Il taccuino del vecchio, e qui la parola di Ungaretti si fa carico di una sapienza profetica, che tuttavia mai si raggomitola su se stessa, mai finisce prigioniera o vittima delle proprie memorie. A un certo punto Ungaretti dice: “Quando un giorno ti lascia, / Pensi all’altro che spunta”. Mi pare che i due versi possano valere come epigrafe di tutto il suo irrinunciabile ottimismo, di questa sua fiducia nella vita, e nell’uomo, nella donna che vivono e, come i profeti dipinti da Michelangelo sulla volta della Sistina, scrutano nel presente, e nel passato, i segni di un compimento da cui siamo attesi, e che ci attende.

(Camillo Fornasieri)