Rimuovere le statue, cambiare parti di film/cartoni storici, impedire traduzioni di poesie considerate troppo “razziste” (non nel contenuto, ma nel semplice colore della pelle di chi traduce) e ora anche eliminare alcune parole delle etichette dei prodotti: la nuova “cultura” del timore, del politicamente corretto e del predominio dei diritti ‘sbarca’ anche in Unilever, catena internazionale che detiene più di 400 prodotti per l’igiene, la casa e il beauty. «Non sta a noi decidere cosa è normale. Siamo qui per offrire i migliori prodotti per soddisfare i bisogni di ciascuno», così parla Esi Eggleston Bracey, executive vice presidente e chief operating officer di Beauty & Personal Care per Unilever, intervistato dal magazine ‘Allure’.
In sostanza, la parola “normale” viene definitivamente estinta dal packaging e dalle pubblicità di tutti i brand in dote a Unilever, come Axe, Clear, Dove, Glow & Lovely, Lifebuoy, Lux, Rexona, Smile, Sunsilk e Vaseline. Il progetto denominato “Positive Beauty” istituito da mesi in Unilever mira per l’appunto a diffondere «uguaglianza di genere e inclusivity» sul benessere del corpo e della salute mentale ma che si allarga anche alle questioni ambientali e di gender gap, insomma tutto il mix dei temi “che tirano” nella società occidentale odierna.
CAMBIARE PER PAURA DELLA REALTÀ
«Come ognuno si prenda cura di sé è una scelta personale e nella nostra offerta noi non definiremo lo standard di ciò che è “normale”», prosegue il vice presidente di Unilever celebrando con orgoglio il progetto di “riqualificazione” anche del linguaggio scelto e nella comunicazione. Oggi è “normal” ma già lo scorso anno altre parole erano state eliminate dai brand internazionali della multinazionale olandese-britannico: fair, fairness, white, whitening, light, e lightening, tutto rimosso per “timore” di possibili discriminazioni e per paura di essere accostati a temi del tutto squalificanti come razzismo, sessismo e omo/transfobia.
Il sondaggio internazionale che ha preceduto la scelta di “campo” di Unilever ha visto coinvolti 9 Paesi in tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti: e il 70% dei rispondenti al sondaggio concordano che la parola “normale” nella pubblicità ha un impatto negativo che fa soffrire molte persone. Come ben riassume Vanity Fair, nel mondo della bellezza immaginato da Unilever – e non solo – emerge l’esigenza di prodotti che “facciano sentire meglio” piuttosto che “far apparire meglio”. Concetto interessante e tutt’altro che banale, ma che rischia l’ennesima generalizzazione per quell’effetto sempre più martellante di “timore” della discriminazione (o paura della polemica) che porta ad una rivoluzione di concetti e linguaggi. Cambiare non perché il mondo cambia ma perché “si teme” un riconoscimento della realtà per quella che è: una rivoluzione copernicana che potrebbe però non portare tutti quei benefici annunciati in partenza, anzi…