Egregio direttore,
l’interruzione violenta di un seminario sul diritto alla vita indetto da un’associazione di studenti dell’Università Statale di Milano ad opera delle solite minoranze depresse (la rabbia è sempre un correlato della depressione) che da decenni continuano ad occupare abusivamente le aule universitarie di Milano, Torino e Roma, non è affatto una novità.
Il ruolo di “polizia morale” esercitato nei confronti di tutto ciò che possa contrastare, in qualunque modo, il loro ossessivo decalogo dominante (dalla difesa palestinese a prescindere, alla lotta contro l’odiata Meloni e la sua svolta “autoritaria e fascista”, dal diritto agli arcobaleni a quello dei deltaplani di Hamas – peraltro assolutamente incompatibili tra loro – passando per la lotta al “patriarcato” e quella contro “l’internazionale sionista”) è stato qui pienamente riconfermato.
Per questi nostri ayatollah laici un seminario di testimonianze orientato sul diritto alla vita non poteva non apparire che come una violazione intollerabile del “diritto all’aborto” e quindi una pericolosa rimessa in discussione dei “diritti delle donne” gloriosamente conquistati dai loro padri, cioè dalla mia generazione.
Se poi a indirlo è un’associazione vicina alla pericolosa realtà di CL, allora il disegno è chiaro, la provocazione evidente e l’interruzione sacrosanta. Come poterli non capire, nel loro grido disperato di rivolta contro un tale mostro?
Tuttavia una tale protesta inevitabilmente rabbiosa, per quanto scontata, ha permesso di rilevare un elemento significativo che va opportunamente preso in considerazione.
Più del carattere scontato dell’isteria di gruppo manifestata dalla squadra di pronto intervento a difesa del decalogo dominante, sono le forme di reazione che meritano infatti la nostra attenzione e vanno prese in debita considerazione.
Nel “mondo ciellino”, cioè nell’universo morale che prende vita nel movimento di Comunione e Liberazione e, in particolare, nelle “scuole di comunità”, si è educati a dare priorità all’esperienza personale piuttosto che alla propria visione della realtà. È l’esperienza vissuta che viene prima di ogni concettualizzazione, di ogni analisi, critica o non critica che possa essere. I “ciellini” preferiscono dire cosa stanno vivendo, prima di manifestare e articolare le proprie analisi. Proprio per questo riescono a convivere pur avendo pareri diversi su quasi tutto, ad eccezione, ovviamente, della centralità di Cristo e della sua Chiesa.
Se si prendono in esame le reazioni degli organizzatori all’interruzione della loro assemblea, si scopre come, più che una difesa del diritto alla vita, e quindi di un principio, questi scelgano di narrare innanzitutto cosa sia accaduto e cosa si sia provato. La stessa forma di reazione la si riscontra anche nelle prese di posizione divenute pubbliche. In particolare va segnalata la lettera di Eloisa Montagna a questo giornale che, in modo ineccepibile, ha fatto ricorso in piena evidenza ad un tale metodo.
Mi permetto quindi di unirmi a questa modalità di espressione, cedendo il passo all’esperienza e dandole priorità rispetto alle analisi di tipo culturale o politico.
È proprio l’esperienza a farci dire che siamo in molti, amici cari, ad essere degli aborti mancati. Siamo in molti ad essere il risultato del mancato cinismo delle nostre madri a sbarazzarsi di noi, pur sapendo che la nostra presenza avrebbe provocato l’impossibilità pratica di uscire dal tunnel della precarietà, dei conti della spesa fatti ogni sera, dei controlli ossessivi delle luci lasciate accese per dimenticanza.
Difficile restare nella precarietà del secondo dopoguerra, quando tutti sembravano riuscirci. Difficile mantenere l’ultimo figlio – “il meno voluto” secondo De André – venuto al mondo a causa di quel “momento di sperdutezza” che per don Giussani e Giovanni Testori è in realtà il segno più profondo dell’umano. Ebbene sì, “anonimi compagni”, siamo in molti ad essere degli aborti mancati.
Non sappiamo cosa abbia dato alle nostre madri e ai nostri padri la capacità di resistere quando, già pochi anni dopo, circolando per casa, ci saremmo sentiti responsabili della mestizia di una famiglia che, per colpa della nostra stessa venuta al mondo, avrebbe ritardato di almeno cinque anni l’acquisto del primo televisore e la conseguente collocazione dell’antenna sul terrazzo condominiale; quella che, come rilevava Pasolini, rappresentava la bandiera dell’avercela fatta. Così come, sempre la nostra presenza, avrebbe ritardato di almeno dieci anni l’ingresso della nostra famiglia nell’immaginario “ceto medio”, con l’acquisto a rate della prima automobile usata.
Non è stato facile, né per loro né per noi.
Sono tuttavia empaticamente e profondamente certo, che la fede in Cristo, cioè in quell’uomo appeso ad una croce e abbandonato tra le braccia di una Pietà materna e silenziosa, abbia fatto loro da compagnia. E sono altrettanto certo di come non si sia affatto trattato solo di una pura emozione, intensa quanto momentanea, bensì di una postura permanente che ha finito per completare la loro educazione religiosa. Noi, aborti mancati, abbiamo riconciliato i nostri genitori con ciò che avevano di più caro: quella fede ereditata dai padri, appresa a memoria e praticata per abitudine.
Hanno preferito noi all’automobile usata, ed è questo qualcuno ad averli sostenuti, trasformando un momento di dura solitudine in un percorso in salita prima ed in una ricchezza inesauribile poi, dove la gioia ottenuta alla fine è risultata impagabile.
Mi associo volentieri ad Eloisa Montagna nella sua preziosa testimonianza, ma anche a don Giussani che ha insegnato, a tanti giovani e molti anni dopo anche a me, che alle assemblee per il diritto alla vita interrotte da un’azione violenta – questa sì, oggettivamente squadrista – non possono essere contrapposte che delle esperienze, le esperienze concrete di vita con le quali confrontarsi, magari in pace e, perché no, condividendo la stessa mensa.
Nell’aula della Statale di Milano non si è verificato nessuno scontro tra opinioni diverse, ma è accaduto molto di più. Il confronto tra due modalità radicalmente differenti dell’esserci dell’umano dinanzi al mondo ed alla vita: la prima, che finisce per rifugiarsi negli apriori ideologici a prescindere, e la seconda che fa i conti con l’esperienza vissuta così come è riportata dai testimoni diretti.
Non c’è dubbio come sia proprio quest’ultima a rivelarsi eccezionale, ponendo fine ad una “scolastica” della protesta che, nonostante la sua imbarazzante minoranza, continua ad aggirarsi nelle aule universitarie.
Proprio per questo, quanto è accaduto alla Statale è un evento centrale e, a suo modo, emblematico. Si è resa infatti evidente una scelta di posizione dinanzi alla vita, una modalità dello sguardo dinanzi al mondo e soprattutto dinanzi a sé stessi, che segna, questa sì, una vera e propria provocazione ad un cambio di passo all’interno della società contemporanea.
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