Il Covid-19 non solo non ha cambiato il mondo in meglio ma sta rischiando di amplificare i guai che ci portiamo appresso da anni.
Ultima, ma solo in ordine di tempo, la notizia del crollo delle immatricolazioni alle università italiane e in particolare a quelle del Sud.
Sembra infatti che l’annunciarsi della crisi di autunno stia spingendo molte famiglie a rinunciare alla formazione superiore per i loro figli. Non vi può essere notizia più allarmante. La perdita di investimento sul capitale umano di un paese rischia di segnarne il destino, e avviare al declino un’intera nazione per i prossimi decenni.
Anche il questo caso stiamo parlando di una tendenza conosciuta e in atto da anni. Già nel 2008, all’inizio della crisi finanziaria nata dai mutui spazzatura, il crollo delle iscrizioni fu drammatico: si passò dai 338.036 del 2003/04 ai 252.457 del 2013/14, oltre 86mila iscritti in meno in dieci anni.
Nello stesso periodo in Italia la forte migrazione di giovani dal Sud al Nord, soprattutto dei figli delle famiglie benestanti, ha trasformato il dato in una vera e propria catastrofe per le università meridionali (-32%), mentre ha prodotto una buona tenuta di quelle del Nord, atenei milanesi in prima fila. Infatti in quegli anni abbiamo avuto una netta polarizzazione del talento giovanile in alcune Regioni (Lombardia 19%, Lazio 15%, Emilia-Romagna 17%) che hanno accolto da sole oltre il 50% degli studenti universitari che decidevano di cambiare sede per studiare.
Ad accentuare questa tendenza vi sono state ragioni molto concrete, come ad esempio il “tasso di occupazione” che per le università del Nord è salito al 79% mentre per quelle del Sud è sceso al 61%, fatta eccezione per i laureati in ingegneria elettronica. Ma anche il reddito percepito nei primi anni di lavoro è risultato penalizzante: ad esempio un laureato del Nord ha guadagnato mediamente 1.163 euro al mese, contro una media di 975 per un coetaneo che si era laureato in un ateneo del Sud.
L’ulteriore crollo previsto nel 2020 delle iscrizioni nelle nostre università ci penalizza due volte, la prima perché il mantenimento e i costi connessi alla permanenza in un’altra sede rappresentano una consistente fetta di Pil che viene sottratta alle zone più povere a vantaggio delle città universitarie del Nord e di altri paesi. La seconda perché la possibilità che i migliori restino a lavorare dove si sono laureati è davvero molto alta.
Prendiamo ad esempio il caso della sanità, oggi diventata per tutti noi una priorità anche se per anni è stata abbandonata a se stessa, e della carenza di medici specialisti nei nostri ospedali.
Da una recente ricerca svolta da “Talents in Motion”, piattaforma che sta monitorando da oltre un anno i nostri talenti in giro per il mondo, risulta che sono oltre 10mila i medici italiani che lavorano all’estero, con un tasso di crescita di circa 1.500 all’anno. Anche stavolta questo vero e proprio furto di intelligenze ha origine da un colossale difetto di programmazione, e non mi riferisco solo all’incomprensibile politica del cosiddetto “numero chiuso”, ma soprattutto all’incapacità di organizzare un sufficiente numero di corsi di specializzazione (certo molto più costosi, 125mila euro a fronte dei soli 24.800 che servono per un medico) ma che sono stati tagliati senza pietà e raziocinio.
Per cui oggi ci troviamo con una seria carenza strutturale di personale specializzato che toccherà nel 2025 il tetto delle oltre 16mila unità, esattamente mentre un numero superiore di medici italiani lavorerà all’estero.
Tutto questo – dobbiamo saperlo – non capita per caso: esiste una vera è proprio competizione tra gli Stati europei ad accaparrarsi i medici migliori, e gli italiani lo sono, offrendo in primo luogo allettanti retribuzioni sempre più alte (a fronte degli 80.000 dollari percepiti in Italia da un medico specializzato si arriva ai 156.600 della Germania, ai 186.000 dell’Irlanda, fino ai 206.000 offerti dall’Islanda).
Quindi ora ci troviamo a dover contrastare contemporaneamente la fuga dei cervelli (dei giovani ricchi) e la rinuncia ad un più ambizioso percorso di formazione universitario (dei giovani poveri) con la conseguente comune perdita di un capitale umano indispensabile per il nostro futuro.
Ma è solo una questione economica, come suggerisce il ministro Manfredi? Non credo: in questi anni i ricchi, soprattutto al Sud, non hanno badato a spese e hanno investito risorse enormi per formare i loro figli e sono loro che li hanno invogliati a lasciare il paese, mentre i giovani delle famiglie meno abbienti hanno ritenuto inutile proseguire nella formazione di tipo universitario perché hanno vissuto sulla loro pelle clientelismo e nepotismo, le vere ragioni che hanno bloccato ogni aspirazione alla legittima promozione sociale.
Anche in questo caso la soluzione deve valere per entrambi i lati del problema. Lotta alle diseguaglianze e coesione sociale. Il punto dunque non è più garantire ai nostri giovani il diritto di girare il mondo, formarsi e competere a livello globale. Il punto è programmare meglio cosa ci serve (quello che gli inglesi chiamano con un’espressione molto concreta, “matching”) e che richiede una più stretta collaborazione tra università e aziende (soprattutto piccole e medie) e garantire già nella fase finale della formazione, quando un talento è già riconoscibile, un posto di lavoro dove devono essere chiari le condizioni economiche, i percorsi di carriera, la valutazione di merito.
Resto l’ultimo punto, o meglio, l’ultima domanda. Da rivolgere a noi stessi. Ma i nostri giovani vogliono diventare la classe dirigente di questo paese? Hanno idea di cosa significa e quali sacrifici richieda diventare la generazione a cui il paese decide di affidare il suo futuro?
Anche in questo caso ci viene in soccorso una recente ricerca di Talents in Motion, che sarà resa pubblica tra qualche giorno, tra i giovani che lavorano all’estero. Per la prima volta da decenni i nostri giovani giudicano positivamente (circa il 74%) il comportamento avuto dal nostro paese, e dunque anche dal nostro governo, durante l’emergenza pandemica, collocandolo subito dopo la Germania e addirittura prima della Corea del Sud. Nella stessa percentuale dichiarano di essere interessati a rientrare in Italia, se ve ne fosse l’opportunità, per fare qualcosa cosa di utile per il proprio paese.
Ancora una volta abbiamo la prova che non si tratta solo di una questione di soldi, ma se ha senso mettersi al servizio del proprio paese. La condizione principale è pensare di poter essere utili e sapere che l’Italia sappia apprezzare questo impegno.