La notizia sembra riguardare, a prima vista, solo gli addetti ai lavori. La scorsa settimana sono stati attribuiti dal Consiglio europeo della ricerca (Erc) i prestigiosi ed economicamente sostanziosi finanziamenti (grants da 1,5 a più milioni di euro, per un totale di 677 milioni) ai migliori progetti di ricerca in ambito europeo.



Gli studiosi italiani hanno ottenuto 50 riconoscimenti europei, su un totale di 436, classificandosi al secondo posto (11,5% del totale), dietro la Germania. Purtroppo di questi 50 finanziamenti solo 20 saranno utilizzati in Italia, in sedi adatte a svolgere le ricerche proposte. Cinque progetti saranno realizzati all’Istituto italiano di tecnologia, due al Politecnico di Milano e all’Università di Bologna, uno alla Statale di Milano, alla Bocconi, al Politecnico di Torino, all’Università di Trieste, all’Università di Trento, all’Università di Padova, all’Università di Parma, all’Università Federico II di Napoli, all’Istituto nazionale di Fisica nucleare e all’Imt di Lucca.



Gli altri trenta progetti saranno realizzati all’estero, sotto la direzione di ricercatori italiani, ma in sedi universitarie o in enti di ricerca di paesi europei diversi dall’Italia (Monaco di Baviera, Bruxelles, Zurigo fra le più prestigiose). Dal secondo posto, si scende così al decimo, dietro a nazioni con Pil inferiore al nostro (ad esempio, Svezia e Belgio).

Questo dato è un indice allarmante per l’intero sistema formativo italiano, non solo per il mondo universitario e della ricerca. La forte distanza tra il numero dei ricercatori premiati e l’esiguità delle sedi per la ricerca è certamente dovuta a una serie complessa di motivi, sia di carattere soggettivo, come le capacità e la genialità personale, sia di natura oggettiva, derivanti, in prevalenza, dalle strutture di appartenenza e dalla loro dimestichezza, consuetudine e preparazione nel partecipare a bandi europei di alto livello (un progetto Erc richiede molte risorse e tempo per la preparazione e deve superare prove di selezione rigorose e impegnative).



Tuttavia, fatte salve queste varianti e condizioni, per nulla trascurabili, l’elemento di maggior rilievo che il conferimento degli Erc sottopone alla considerazione di tutti è il problema del pezzo mancante del sistema formativo italiano, vale a dire l’ultimo passaggio, quello che dovrebbe portare a frutto tutto quello che si è fatto (studiato, imparato, sperimentato) prima.

Gli Erc sono un indice, un caso, ma l’osservazione potrebbe estendersi anche a settori diversi dalla ricerca, come quelli delle professioni e del lavoro. Non sono rari i casi in cui personale formato in Italia viene assunto con qualifiche professionali e stipendi ben remunerati all’estero. La scuola e l’università italiane dunque formano e, tutto sommato, formano ancora bene, ma poi lo sbocco di tali risorse, o di tale capitale umano – senz’altro nella fascia alta delle prestazioni, ma anche negli altri livelli – si deve cercare altrove.

Non è il problema di contenere la cosiddetta fuga dei cervelli, ma di prendere in seria considerazione, e affrontare alla radice, la grande miopia del sistema formativo italiano: se l’ultimo passo non viene fatto – la possibilità di continuare la ricerca ad alti livelli, l’inserimento professionale e lavorativo, la valorizzazione delle migliori capacità e competenze in strutture robuste e adeguate –, ciò che viene prima è una sorta di investimento a fondo perduto. Non inutile, poiché la formazione della persona è lo scopo principale di un sistema educativo. Ma socialmente costoso e, per così dire, “difettoso”, perché, pur ammesso che funzioni, però non funziona bene.

Finché tale problema sarà affrontato in modo frammentario e per livelli di competenza in modo ristretto, difficilmente troverà una soluzione. Anche se sarebbe buona cosa cominciare a porselo, come problema, e a cercare risposte il più possibili plausibili e concrete.

Un buon ricercatore – così come un bravo medico, un bravo ingegnere, un bravo insegnante e tutto il resto – non nasce a caso, ma ha alle spalle, nella maggior parte dei casi, una buona scuola o una positiva esperienza educativa. La maestra elementare sa che quel bambino o quella bambina cui insegna a leggere, a scrivere e a far di conto nel giro di pochi (relativamente) anni avrà un posto importante nella società e che quel posto deve esserci, affinché quello che fa abbia, almeno socialmente, un senso. La scuola e l’università non possono non porsi – e molti già lo fanno, per fortuna – il problema della continuità della ricerca, della valorizzazione di quanto imparato e scoperto negli anni della formazione nel campo delle professioni e del lavoro, della creazione di “luoghi” ove la vivacità di una nazione possa trovare le sue espressioni.

Dimenticare o trascurare l’ultimo passaggio è un errore che una società moderna non può permettersi e che potrebbe pagare caro, con l’incombente pericolo di cadere in una specie di invecchiamento culturale, professionale e umano, dal quale prima alcuni, poi la maggior parte, cercheranno di allontanarsi, per restare attivi.
Nei programmi e nei propositi per uscire dalla grave crisi della pandemia se ne dovrà tener conto e usare gli investimenti anche per rimediare a questa situazione.

È un compito che riguarda tutti, dal Governo alla Politica – se vuol tornare a essere un’arte nobile –, dagli imprenditori agli insegnanti, ed è anche un compito delle nuove generazioni che (anche) su questo punto dovranno far sentire la loro voce.

I prossimi colleghi dei trenta ricercatori, che all’estero tra qualche mese inizieranno a realizzare i loro progetti Erc, dovranno poterlo fare in futuro in Italia. E non solo loro.