Nell’era della globalizzazione avanzata, della spinta digitale e dell’industria 4.0, i mass media di tutto il mondo occidentale offrono quotidianamente immagini, frame, interviste e documentari sugli uomini nuovi del neocapitalismo del web, che sono stati in grado di rivoluzionare, con i loro prodotti informatici, i paradigmi produttivi e di consumo, accelerando quel processo di connessione apertosi all’indomani della creazione di internet. Oggi in ogni abitazione del Primo mondo sono presenti oggetti di consumo derivanti dalle grandi multinazionali del settore digitale, come iPhone, iPad, server Apple o Microsoft, figli del lungo corso di ricerca sviluppatosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
Con la rivoluzione digitale, questi strumenti hanno cambiato la nostra concezione del tempo e dello spazio: il just in time della produzione toyotista, con un approccio post-industriale, è il paradigma produttivo di riferimento, il consumo iper-personalizzato la meta finale di ogni prodotto dell’industria 4.0. Con il semplice gesto di un dito sembra di avere sotto controllo l’andamento di un investimento azionario, l’accesso al mondo dell’informazione delle grandi testate giornalistiche o, più semplicemente, si può ordinare una pizza o del sushi comodamente seduti sul divano di casa, mentre guardiamo una serie televisiva su Netflix, Prime Video o altre piattaforme che, ormai, hanno sostituito le sale cinematografiche.
Il commercio di tutti questi dispositivi è soggetto a una sorta di depersonalizzazione avanzata, in quanto il classico rapporto commerciale tra cliente e venditore è stato soppiantato dai grandi gruppi dell’e-commerce, come Amazon. Il colosso americano delle vendite online rappresenta un nuovo prodotto del neocapitalismo digitale: il comfort concesso al consumatore è illimitato, considerando che, senza sforzo alcuno, e senza uscire dal proprio ambiente domestico, possiamo acquistare una SmartTv di ultima generazione o un regalo per i nostri figli. Soprattutto nella fase più acuta della recente pandemia, molti piccoli rivenditori hanno dovuto reinventare il proprio lavoro, trasferendo il loro business sul web e rivoluzionando i loro ambienti professionali per sopravvivere.
In sintesi, il nuovo corso inaugurato inizialmente con l’invenzione di internet, fino all’attuale modello di web, ha reso più fluida la nostra esperienza nel mondo, modificando gli assetti economici e anche le relazioni tra gli individui.
Anche il mondo universitario e della ricerca è riuscito a portare avanti il proprio compito didattico attraverso gli strumenti offerti dall’industria 4.0 e dalla digitalizzazione. Oggi, ad esempio, accedere alle informazioni su un inventario archivistico è molto più semplice, grazie ai processi di digitalizzazione che hanno interessato anche le scienze umanistiche; lo stesso dicasi per le scienze dure, che hanno a disposizione nuovi apparecchi di supporto nella geolocalizzazione, nella strumentazione medica eccetera. In più, l’accesso a un ampio inventario di riviste scientifiche è più aperto rispetto al passato, grazie alla creazione di motori di ricerca finalizzati alla diffusione del sapere. Dal punto di vista pratico, nel corso degli anni pandemici le classiche lezioni in presenza, o le sedute di esami, sono state sostituite dalle aule virtuali, che hanno permesso a studenti e professori di dare una continuità al loro percorso. Al di là della diatriba tra presenzialisti e piattaformisti, è indubbio che la tecnologia sia stata di supporto per tutto il mondo dell’istruzione.
Si può, dunque, affermare che le innovazioni dell’era digitale hanno sostenuto anche il mondo dell’università e della ricerca, lo stesso che, forse inconsapevolmente, oppure per strategie politiche e aziendali, viene continuamente denigrato nelle ormai quotidiane interviste e apparizioni televisive dei protagonisti del nuovo corso. I grandi tycoon della digitalizzazione, quando intervistati in tv o nei programmi radiofonici, non mancano mai di sottolineare che nell’economia della loro formazione, e nel contesto della loro creazione primaria, il mondo universitario c’entra poco. Si descrivono come autodidatti dell’informatica e della conoscenza scientifica, ai quali l’università non ha fornito quegli stimoli per la distruzione creatrice di schumpeteriana memoria, che hanno messo in atto grazie al loro ingegno e alle loro poche risorse.
Lo stile autocelebrativo dell’imprenditore informatico americano ha creato il “mito del garage”: Bezos, Gates, Jobs hanno dato il via alle loro fortune nei garage di casa, vincendo le avversità e nonostante l’esiguo capitale di partenza. Jobs, Gates e Zuckerberg non hanno concluso i loro percorsi universitari, e non hanno perso occasione per sottolineare l’assenza della formazione accademica nella loro inventiva da rivoluzionari del web.
Pochi casi, però, non fanno legge. Inoltre, come dimostrato da Mariana Mazzucato, le tecnologie e le strumentazioni utilizzate dai grandi pionieri dell’industria digitale provengono da ricerche finanziate dallo Stato americano, sia in ambito di programmi dell’industria bellica, sia nei laboratori di ricerca pubblici e universitari. L’economista italo-americana descrive, ad esempio, Jobs come un ottimo assemblatore di componenti già in uso per altri scopi, ricco di inventiva soprattutto nel campo del design: i prodotti a marchio Apple, oltre a portare un’avanzata tecnologia verso uno scopo consumistico, sono stati rivoluzionari nello stile e nelle dimensioni, offrendo un oggetto “bello e comodo” per gli usi quotidiani di milioni di cittadini.
Oggi a nessuno verrebbe in mente di sottrarre meriti ai pionieri della digitalizzazione, i quali hanno reso accessibile alla popolazione occidentale una serie di sistemi operativi che hanno agevolato le nostre vite. Tuttavia, seguendo uno dei principi evangelici più noti, bisogna “Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo”. Bisogna riconoscere i meriti a ciascuna delle parti in causa, e il settore pubblico, università in testa, ha molti più meriti di quanti ne vengano riconosciuti massmediaticamente. Un nuovo apparecchio per la chirurgia laser, capace di ridurre i margini di errore dell’essere umano nel campo medico, una produzione agricola idroponica, le energie rinnovabili funzionali alla tanto richiesta transizione energetica verso la bioeconomia e l’economia circolare, che potrebbero migliorare il secolare rapporto contraddittorio tra produzione umana e ambiente circostante, ad esempio, sono il frutto di anni di ricerca universitaria sostenuta con fondi pubblici. Nel frattempo, sull’altra sponda dell’Atlantico, il mito del garage è diventato un grido d’allarme dei sostenitori più accesi del neoliberismo per muovere guerra alle politiche di incentivazione della ricerca mediante risorse pubbliche. Signa inferre, sembrano urlare i broker legati al Nasdaq newyorkese, e l’invito è accolto dalle penne più celebri dei periodici economici e non.
Portando avanti la retorica del self-made man tout court si dà soltanto a Cesare: l’università e la ricerca vengono messi su un piano inferiore, tacciate di nozionismo e improduttività, capaci soltanto di rilasciare un pezzo di carta che sembra un passepartout per accedere a una posizione lavorativa precaria nel terziario. Questa interpretazione del ruolo degli atenei nella società è anche il frutto di quasi quarant’anni di politiche neoliberiste: la precarizzazione del mondo del lavoro qualificato, ovvero quello composto da giovani neolaureati, che dopo anni di formazione vedono disattese le loro aspettative di vita a causa della mancanza di stabilità, e che sono sopraffatti da un iper sfruttamento professionale, ha causato una perdita di rilievo sociale degli atenei, una volta considerati il luogo del riscatto sociale per eccellenza. L’attuale “tuttologia” da social media, in cui tutti si ergono a detentori ultimi delle verità nascoste, senza avere alla base alcuna preparazione sull’on-topic quotidiano, sia esso legato alla sperimentazione sui vaccini anti-Covid o alla guerra in Ucraina, è una conseguenza diretta di questo fenomeno.
La politica deve prendere coscienza di questa deriva anti-accademica, che sta maturando in seno al produttivismo neoliberista, che pone la cultura su un gradino inferiore rispetto al guadagno immediato, senza badare al reale e concreto apporto offerto dalle istituzioni universitarie al cambio dei paradigmi socio-economici nell’era digitale.
Senza università non c’è innovazione, senza innovazione non c’è sviluppo, sia dal punto di vista economico che sociale. I fondi del Pnrr daranno nuova linfa vitale al mondo accademico dopo anni di riforme incompiute o, addirittura, peggiorative, che hanno destabilizzato migliaia di professionisti della ricerca impegnati nell’università senza adeguato sostentamento e con un futuro incerto.
Ma solo gli incentivi non bastano. Bisogna ridare all’università pubblica il posto che merita, ovvero il gradino più alto nella scala dei valori del sapere, adoperando anche i nuovi modelli del marketing digitale e i social media, non qualificandola come istituto che rilascia diplomi, ma in qualità di ente superiore di formazione delle nuove generazioni di ricercatori, che rappresentano, nella pratica, l’avanguardia dell’umanità.
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