La recente inchiesta giudiziaria denominata “Università bandita”, partita dall’ateneo di Catania, ha scoperchiato un sistema di concorsi accademici pilotatati e attuati con criteri non basati sul merito e la professionalità ma su logiche spartitorie dei baroni universitari. La magistratura accerterà le responsabilità non solo nell’ateneo catanese ma anche nel resto dell’Italia. Il caso del dottor Giambattista Scire, ricercatore in storia vittima di questo sistema, risale al 2011 e coinvolge proprio l’Università di Catania. La sua vicenda ci insegna che è vero che la verità ci rende liberi, soprattutto se unita – speriamo – alla giustizia umana.



In un libro del 2009, dal titolo I baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana, il professor Nicola Gardini, docente di letterature comparate all’Università di Oxford, racconta la sua storia di outsider che ha osato sfidare parte dell’establishment del sistema accademico italiano basato sul feudalesimo consociativo, e si ritrova estromesso dalla sua carriera universitaria per approdare nella più meritocratica Gran Bretagna. Due anni dopo, lei, nel 2011, ha la felice idea di candidarsi per un posto di ricercatore a tempo determinato all’Università degli Studi di Catania, in Sicilia, sua terra natale, e con questo atto pone fine alla sua brillante carriera di studioso di storia. Potrebbe sintetizzare la vicenda?



Mi sono presentato da esterno, avendo conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Firenze, con un solido curriculum scientifico ad un concorso per ricercatore in storia contemporanea (tempo determinato, 3+2 anni) bandito dall’Università di Catania. Nel sistema attuale, senza aver protezioni accademiche, in una parola: una follia. Sorpreso dall’esito della valutazione, feci accesso agli atti e scoprii quello che mai mi sarei atteso. La commissione aveva dichiarato vincitrice l’unica, tra i sei candidati giunti alla selezione finale, a non possedere il dottorato. Era laureata in architettura ed aveva un profilo scientifico disciplinare di un altro settore, ovvero progettazione urbanistica e storia dell’architettura. Aveva meno della metà del punteggio delle mie pubblicazioni (monografie e saggi su riviste). Quel concorso era stato cucito su misura per far vincere lei.



Quali sono state le tappe giudiziarie che hanno qualificato il suo ricorso contro la decisione della commissione giudicatrice?

Feci ricorso al Tar Catania nel 2012 che già all’inizio ordinò alla commissione di attenersi al decreto ministeriale e riformulare, specificando, i titoli che erano congrui al settore messo a bando. I commissari elusero l’ordinanza, l’ateneo non nominò mai una commissione di diversa composizione, e così lei prese servizio al mio posto (per 2 anni e sei mesi). Questo comportò un danno erariale, come scrissero i giudici nella sentenza del 2014 che mi dichiarò vincitore del concorso. Ma a quel punto l’ateneo eluse, a sua volta, la sentenza, il che comportò la non proroga del mio contratto (feci in totale 4 mesi sui 5 anni complessivi). Successivamente altre due sentenze, una del Consiglio di Giustizia amministrativa siciliano nel 2015, l’altra nuovamente del Tar nel 2017 hanno riconosciuto le mie ragioni. Infine, qualche mese fa, è giunta la condanna penale della commissione per il reato di abuso di ufficio in concorso tra loro.

In questi giorni vi è una inchiesta della magistratura su presunti concorsi truccati dell’Università di Catania, con ramificazioni tentacolari in tutta Italia. Quasi una novella “piovra”. Potrebbe spiegare questo tipo di mentalità di parte del sistema accademico italiano a chi non è un addetto ai lavori? Per capire la gravità del malcostume…

Il fatto è che nell’università italiana i concorsi universitari sono già tutti decisi prima dell’esito (qualche volta può capitare che vinca anche il candidato migliore). Si sa sempre, in buona sostanza, chi sarà il vincitore. Gli altri candidati, in particolare i più preparati e titolati, o non partecipano per non creare problemi, oppure se partecipano sanno già che non vinceranno e che dovranno aspettare, buoni e zitti, ognuno il proprio turno. Decidono tutto, prima dell’esito, i dipartimenti che nominano (fanno finta di sorteggiare) le commissioni, creando una griglia di criteri di valutazioni in modo tale da modellarla sul profilo del predestinato. Chi si ribella a questa regola non scritta sarà tagliato fuori per sempre.

Perché in Italia è così difficile fare carriera accademica se non si è raccomandati dal barone di turno?

Chi non ha mai conosciuto il mondo accademico da dentro non può sapere che nella sua auto-rappresentazione quel mondo è impegnato a fare della scienza stessa un potere. Un potere così integrale, da pretendere l’assolutezza, l’arbitrio e l’insindacabilità. Ovviamente, con tutto il supremo carico del padrino o maestro il cui apporto alla legalità consiste non nel sottostare alle leggi ma, direttamente, nel farle. Perché gli atenei sono considerati come dei feudi, come il far west: le leggi dello Stato in essi non valgono, come è stato dimostrato nella non esecuzione di tante sentenze della magistratura. Tutto ciò induce i baroni a ritenere legittimi quegli atti che, per il normale comune cittadino, senza questa iniziazione accademica, si direbbero arbìtri, per non dire illeciti o abusi. In definitiva, come ogni corporazione degna di questo nome, per usare diciamo un eufemismo, quella accademica sa bene, ed è la prima cosa che viene insegnata, attraverso un vero e proprio rito di iniziazione, ad ogni cooptato, che i panni sporchi, come si dice, vanno lavati in casa, e che i favori tra raccomandati-vassalli e feudatari vanno prontamente ricambiati.

Potrebbe indicare qualche espediente tecnico per arginare il fenomeno dei bandi “sartoriali” nei concorsi truccati?

Basterebbero delle semplici modifiche alla legge sul reclutamento: abolizione dei concorsi locali; sorteggio simultaneo delle commissioni con numero allargato a 7-10 membri; determinazione preventiva da parte del ministero per ciascun settore, dei punteggi minimo e massimo, espressi in centesimi, per tutti i titoli e pubblicazioni previsti dal decreto ministeriale; rideterminazione, secondo un modello più automatico, dell’abilitazione scientifica nazionale; penalizzazioni in percentuale sui fondi ordinari per gli atenei che si rendono colpevoli di non vigilare con i loro uffici sulle irregolarità (ad esempio il 5% in meno per chi propone bandi profilati, per chi non sanziona conflitti di interessi e illogicità di valutazione e non adegua le commissioni alle norme previste dall’Anac); sospensioni e multe pesanti per i commissari che si sono macchiati di irregolarità a livello di giustizia amministrativa o di reati penali ai concorsi.

Lei, insieme ad altri, ha fondato l’associazione senza fine di lucro “Trasparenza e merito”. Può illustrare le ragioni e le finalità?

L’associazione è nata circa un anno e mezzo fa, conta oggi 420 iscritti tra docenti, ricercatori e studiosi e 2500 sostenitori. Si propone di perseguire i seguenti scopi: rappresentare un punto di riferimento, di ascolto e di supporto per tutti gli studiosi che intendano reagire e contrapporsi a episodi di “mala-università”; offrire, a tutti coloro i quali intendano rivolgersi ai tribunali (amministrativi e penali) consigli qualificati, consapevoli e di esperienza sulle più efficaci e meno dispendiose iniziative da intraprendere; proporre direttamente azioni in appoggio degli iscritti, attraverso le diffide agli atenei, l’interlocuzione con il ministero, la costituzione di parte civile ai processi, la diffusione delle notizie e delle denunce attraverso la stampa, internet e la televisione; accreditarsi come soggetto interlocutore di tutte le competenti istituzioni e componenti politiche sulle problematiche del reclutamento e della riforma del sistema universitario.

Che cosa si sentirebbe di dire ai giovani ricercatori che si trovano di fronte al sistema baronale?

Alla luce delle parole del procuratore Zuccaro durante al conferenza stampa sui risultati dell’inchiesta “Università bandita”, mi sento di invitarli a denunciare le irregolarità e a credere nei propri mezzi, nella propria preparazione, nel merito. Non è giusto darla vinta ad un sistema che, in molti casi, ha svilito l’immagine dell’istituzione universitaria. Non è bello vincere un concorso per gentile concessione o scambio di favore, questo sminuisce anche il candidato più titolato e preparato. Mi sento di dire: siate delle persone perbene, per non essere né conniventi, né complici. Solo isolando i comportamenti illeciti si potrà fare quel salto, quella rivoluzione culturale e creare così un ambiente più giusto, più legale, più trasparente, più meritocratico.

Ritornando al suo caso, lei non ha avuto “giustizia”, cioè la sua carriera accademica si è fermata di fatto nel 2011. Ha percorso altre strade professionali?

No, non l’ho fatto per due ragioni. La prima è che mi sono concentrato, anima e corpo, prima sui ricorsi, studiando le documentazioni, proprio come se fossero documenti di ricerca storica d’archivio al quale ero abituato, e per fortuna i risultati in termini di sentenze si sono visti. La seconda è che poi ho dato vita, insieme ad alcuni colleghi, all’associazione, e questa missione ha assorbito totalmente le mie energie. Sarò un illuso, ma credo veramente nella possibilità di apportare grandi miglioramenti e modifiche al sistema universitario e così di poterne anche entrare, un giorno, a farne parte, come credo avrei meritato.

Il suo caso è ritornato alla ribalta, purtroppo, come esempio di una vittima del sistema, in virtù della tempesta giudiziaria scoppiata a Catania. Lei è stato tenace e ha denunciato l’abuso del 2011, con la conseguenza che la sua carriera professionale, fatta di dedizione, serietà e impegno, è stata di fatto stroncata. Che cosa prova ora, a livello umano?

Non mi sono meravigliato quando è stato scoperchiato il vaso di Pandora con l’inchiesta catanese, perché so bene, attraverso la percezione che ho dalle segnalazioni all’associazione, dalle sentenze degli ultimi anni, che il sistema è quello in tutti gli atenei e in tutti i settori scientifico-disciplinari, si è sedimentato nel corso del tempo perché nessuno si è mai opposto, nessuno ha mai denunciato per paura di ritorsioni, per convenienza o per quieto vivere. La cosa che più mi amareggia è che l’ambiente universitario, sia sul mio caso, sia su questo recente scandalo, ha risposto allo stesso modo, ovvero col silenzio, arroccandosi su posizioni di potere e di privilegio, di casta, come un fortino asserragliato. Mi ferisce in particolare l’atteggiamento della gran parte dei docenti del settore (a parte qualche raro caso di onestà e limpidezza), quello di coloro che un tempo mi erano colleghi ed amici e che, dopo la denuncia, sono spariti. E poi anche l’isolamento subito in termini di possibilità di collaborazioni con riviste del settore e case editrici.

Infine, lei ha scelto di non fare come tanti giovani studiosi italiani di cercare fortuna all’estero, di non essere insomma uno dei tanti “cervelli in fuga”, che dimostra, paradossalmente, l’eccellenza del sistema di istruzione del nostro Paese. Col senno di poi, è convinto di aver fatto bene a partecipare a quel “maledetto” concorso?

Forse non ci crederete, visto che da quel momento la mia vita è cambiata in peggio e non ho potuto fare ciò che avevo sempre sognato. Ma lo rifarei. Perché da quel momento ho iniziato a capire come è veramente il mondo accademico ed ho preso coscienza che o si cambia alla radice, e allora vale la pena che persone preparate e oneste vi entrino a farne parte, oppure è bene che le migliori menti vadano altrove, si dedichino ad altre professionalità, anche perché con questo andamento il mestiere della ricerca storica e dell’insegnamento all’università rischia sempre più di essere avulso dalla società che abbiamo attorno, sempre più patrimonio di pochi eletti, persone scelte per affiliazione, lignaggio familiare, ovvero tutto il contrario di soggetti qualificati, con una visione internazionale e globale, orientata verso il futuro. Infine sono contento di averlo fatto perché credo di aver dimostrato, con il mio esempio e quello dell’associazione, che non si deve mai mollare e che solo così, lottando, si possono ottenere grandi risultati di cambiamento.

(Marco Ricucci)