Ha fatto una certa impressione, a fine maggio, leggere di un aumento considerevole dell’abbandono universitario nel primo anno di corso. Le cifre ufficiali pubblicate dal Miur parlano infatti di una crescita netta del fenomeno dell’1% nel decennio che va dal 2012 al 2022: siamo passati dal 6,3% di dieci anni fa al 7,3% odierno, col dato che sembra destinato a crescere inesorabile.



Quello che però colpisce maggiormente è un altro dato che si tende a considerare di meno, ovvero quello riferito al cambio di facoltà o corso di laurea dopo il primo anno. La tendenza, indice di una certa confusione e fragilità, è in forte aumento ma non è possibile recuperare, in questo caso, numeri ufficiali. Persino il portale ufficiale del Mur, Ustat, che si occupa di monitorare i numeri degli atenei italiani, non mi ha aiutato in questo senso. L’ultimo dato risale al 2019, quando risultava una percentuale dell’8,4% di ragazzi che decideva di cambiare percorso dopo un solo anno. Il numero è con ogni probabilità cresciuto a braccetto con quello degli abbandoni, sfiorando (o forse superandolo?) così quasi il 16% di ragazzi che, terminato l’anno da matricola, decidono di lasciare o cambiare indirizzo. Un numero ingente, con conseguenze di varia natura.



Come si sta pensando di rispondere al problema? Il ministero ha stanziato tra il 2021 e il 2022, circa 300 milioni di euro per incentivare attività di orientamento universitario, molti dei quali (circa 250) attinti dai fondi del Pnrr.

Inoltre, una riforma prevede che dall’anno scolastico 2023-2024 vengano introdotte per le scuole secondarie di primo grado e per il primo biennio delle secondarie di secondo grado, per ogni anno scolastico, 30 ore di orientamento, anche extra-curriculari; per l’ultimo triennio delle secondarie di secondo grado 30 ore curriculari per ogni anno scolastico.



È l’approccio giusto? Da Roma pare arrivare il messaggio che bisogna affrontare di più l’argomento, parlarne di più, metterlo a tema. Con la tendenza, ultimamente inarrestabile, di quasi “appaltare” certi temi delicati nell’educazione dei ragazzi soltanto al mondo scuola. È giusto? O più se ne discute, almeno in certi termini, più si crea confusione? La domanda è davvero aperta con complesse sfaccettature.

Quando si deve accompagnare qualcuno a una scelta di vita, come può essere quella della facoltà, è necessario partire dalla situazione oggettiva di partenza. Ad oggi, quello che spesso caratterizza un maturando al momento del passaggio all’università è una gran paura di sbagliare la scelta e l’ansia di ritrovarsi solo nel nuovo contesto. Non sono dati da sottovalutare, perché incidono ogni anno di più e spesso offuscano la lucidità di una decisione.

Come si può aiutare questo passaggio?

Anzitutto svincolare l’orientamento dalla sola scelta universitaria. Ovviamente orientare porta a scegliere, ma non si può ridurre un lavoro così grande di conoscenza di sé solo alla scelta della facoltà. L’orientamento rischia di perdere di respiro. Appiattire tutto a un problema di scelta accademica o professionale può essere controproducente. Lo scopo di un eventuale percorso orientativo deve essere, in primis, nello spirito, quello di una conoscenza più approfondita delle proprie qualità, limiti, passioni e inclinazioni. Non giova legare immediatamente l’orientamento neppure a una futura professione, visto il panorama lavorativo in continua evoluzione e le innumerevoli scoperte professionali che cinque, o più, anni di università possono regalare.

In secondo luogo, occorre ricordare e ricordarsi che l’orientamento è qualcosa che richiede tempo. Qualcosa che inganna gli studenti è l’idea di dover fare la scelta azzeccata entro una data di scadenza incombente. In realtà la scelta della facoltà va vista come un punto di inizio e non, come spesso accade, di arrivo. Gli anni dell’università continuano a essere orientativi e diventano occasione di ulteriore verifica della scelta. Spesso occorre anche l’intero corso triennale per avere piena consapevolezza delle proprie decisioni. Il tempo universitario sia periodo di conferme e verifiche contestuali.

Aiuterebbe anche, inoltre, non trattare l’orientamento soltanto come un problema. Tutto ciò non aiuta. Effettivamente è qualcosa di delicato e di serio, ma si tende a dimenticare quanto possa essere al tempo stesso appassionante. Orientarsi significa anzitutto conoscersi. Può portare a scoprire ambizioni, passioni e aspetti di sé magari mai neppure intuiti. Insomma, è un lavoro impegnativo, ma con grandi motivi di gioia e persino divertimento. Incentivare l’entusiasmo della scoperta può ovviare a tante ansie e remore.

In sintesi, bisogna cercare di smettere di concepire l’orientamento come un settore a sé stante, un compartimento stagno rispetto alle attività di tutti i giorni. Così rischiamo di appesantire il lavoro per ognuno di noi e, cosa ancora più grave, ridurre l’orientamento a un’attività per soli esperti. È necessario assolutamente ricordare che questo è e deve rimanere un lavoro di tutti e di tutti i giorni.

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