Nel turbinio dei giorni appena passati, in cui il dibattito pubblico è stato saturato da confuse diagnosi e incerte terapie, si è discusso di tutto: dal Fondo salva-Stati ai monopattini elettrici. L’unico grande assente, che sembra non interessare a nessuno, è il nostro sistema universitario.
Gli atenei italiani, che da anni ormai versano in una condizione di cronico sotto-finanziamento, negli ultimi due mesi si sono prodigati per fronteggiare una crisi che li ha costretti a un cambiamento radicale. Appelli d’esame, sessioni di laurea, ore di lezione, seminari, incontri: da una settimana all’altra è stato tutto trasferito su piattaforme digitali, con un’efficienza tale che quasi nulla è andato perduto. E mentre ancora aleggiano ampie sacche di mistero sulla fantomatica “fase 2”, le nostre università sono al lavoro affinché gli studenti possano continuare un percorso che ad oggi non si è mai interrotto.
L’università però non è appena un polo erogatore di didattica: è una realtà viva, fatta di rapporti tra docenti, studenti, amministrativi, che si intrecciano quotidianamente per accrescere e scambiare conoscenza. Una realtà viva innestata profondamente nel contesto sociale in cui si colloca, attenta alle esigenze dei membri che la compongono e della realtà che la circonda. Non soltanto infatti fin dall’inizio di questa terribile crisi gli atenei si sono mobilitati per venire incontro alle esigenze dei tanti studenti in difficoltà con sconti sulle rette, esoneri dalle tasse, pasti a domicilio per chi era rimasto nelle residenze, interventi straordinari per il reperimento del materiale didattico, ma ha anche messo in campo le proprie fondamentali risorse nella lotta contro il virus: strutture e fondi di ricerca, parte del corpo docente impegnato in prima linea, infermieri fatti laureare a tempo record. La Statale di Milano, per citarne una, non appena è scoppiata la crisi ha stanziato 100mila euro di risorse proprie per avviare un progetto di ricerca sul Covid-19. O si pensi all’Università di Palermo, che dopo pochi giorni aveva finanziato un piano da 300mila euro per aiutare i propri studenti in difficoltà. O l’Università Cattolica, che vara un fondo “salva studi” da 1 mln di euro.
Tutto questo è notevole, soprattutto in un panorama in cui le istituzioni pubbliche sembrano svelare tutta la propria inefficienza. È notevole, ma non è gratis. Così come non è gratis riconvertire gran parte delle aule per adeguarle alle nuove forme di didattica, non è gratis dotarsi di tutti gli innumerevoli dispositivi per l’igiene e la salute, non è gratis accollarsi l’onere delle borse di studio che Stato e Regioni, contro quanto sancito dalla stessa costituzione, decidono di non pagare.
Pagano gli atenei, costretti a gestire bilanci sempre in bilico; pagano gli studenti, che per fare il proprio compito devono districarsi tra le tasse da cittadini, le tasse universitarie, il costo dei libri, il costo della vita, magari fuori sede, senza uno straccio di reddito. Ma nessuno sembra ricordarsi di tutto questo, e lo dimostrano gli appena 50 mln di euro che il governo ha stanziato per tutto il comparto: ben poco, se si pensa che già solo la Statale di Milano dovrà chiudere a luglio un bilancio da più di mezzo miliardo.
Ma c’è di più. Non investire nel sistema universitario, condannandolo a un’asfissia costante, significa inseguire un’idea molto ridotta di cosa significa la crescita di un paese. Se l’unica misura della crescita consiste nel fare il conto, ormai tristemente, della variazione di qualche decimale di Pil, certamente l’università è il primo settore a cui tagliare risorse. E così si è fatto nel 2008: se prima ci attestavamo in Europa a circa metà della classifica in quanto a rapporto spesa pubblica in istruzione/Pil, dopo la crisi siamo precipitati agli ultimi posti. Nel 2016 ricoprivamo la ventiquattresima posizione sui 28 paesi membri. Questi tagli non ci sono valsi di certo una brillante ripresa.
La crisi odierna, più ancora di quella del 2008, ci pone di fronte alla sfida di ripensare il futuro. Questo strano virus rende evidente a tutti (chi per lavoro studia già lo sapeva) che la realtà non la conosciamo tutta, che nella ricerca non siamo ancora arrivati, e che mai lo saremo. Ci è chiesto di cercare ancora, di scoprire ancora, e questo dove accade se non nelle nostre università? E poi: quale contesto, più che quello universitario, sa elaborare criticamente tutto il valore che ci viene dalla tradizione del sapere, per metterlo in dialogo, in uno scambio quotidiano tra docenti e studenti, con le sfide del presente? Da dove ci attendiamo le energie per ricostruire la società, l’economia, la cultura di domani, se non da quei quasi due milioni di giovani che popolano oggi le nostre università? Sono loro che andranno nelle scuole a educare i nostri figli, sono loro che raccoglieranno le sfide a cui ci convoca il nostro tempo.
Nessun investimento è più garantito che quelli fatti in università e ricerca. Certo: magari non nel computo del Pil del prossimo semestre, ma tra uno, cinque, dieci anni. Ma se non recuperiamo una prospettiva di intervento che supera la logica del consenso immediato – e non parlo solo dell’ambito della formazione – credo che continueremo a tentare di arginare il crollo di una diga infranta: ogni misura sarà sempre parziale, sempre troppo poco.
Certo non è questa la terapia per tutti i mali, ma, nella confusione generale, non è poco poter dire: “ecco, anche da qui si può ricominciare a costruire”.