Quando si dice “citarsi addosso”. Ascesa scientifica della ricerca e dell’università italiana a livello mondiale? No, macché, solo “doping” accademico per inseguire i criteri bibliometrici di valutazione voluto dall’Anvur. Questo hanno sostenuto in uno studio-ricerca pubblicato su una rivista scientifica internazionale alcuni studiosi (Baccini-De Nicolao-Petrovich) del gruppo “Roars”. La ricerca non ha certo il difetto di essere poco chiara: l’impatto delle citazioni delle pubblicazioni di professori e ricercatori italiani, per il periodo successivo all’entrata in vigore della legge Gelmini (2010) e in particolare dell’Abilitazione scientifica nazionale (2012), avrebbe superato addirittura quello di Usa e Gran Bretagna, ovvero dove hanno sede le università più prestigiose e qualificate al mondo. Peccato che tutto ciò, come ha tenuto a sottolineare, riprendendo quello studio, Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera in un pezzo dal titolo “I professori si citano da soli, cosi si gonfia la ricerca”, non sia per nulla vero.
La ricerca scientifica e le pubblicazioni accademiche italiane sarebbero state pompate per anni attraverso il metodo dell’autocitazione di singoli o di veri e propri gruppi organizzati (chiamati “club citazionali”), con la compiacenza di comitati scientifici di importanti case editrici e di riviste cosiddetta di fascia “A”, molte delle quali anch’esse, tempo fa, oggetto di forti polemiche per la mancata trasparenza e scientificità nei criteri di referaggio (viene da chiedersi perché debba esistere un doppio livello scientificità, “a” e “b”: se una rivista è scientifica, lo è punto e basta).
Appare evidente, quindi, che l’uso della valutazione burocratica bibliometrica abbia suscitato da parte dei ricercatori comportamenti autoreferenziali, opportunistici e immorali – se pur non illegali – di scambio di favori. La reale scientificità e crescita del valore qualitativo delle pubblicazioni accademiche italiane, dunque, è solo un miraggio.
In tutto ciò c’è, a mio avviso, una precisa responsabilità dell’attuale mondo accademico, per cui questa sorta di ossessione o delirio da pubblicazione a tutti i costi per rientrare e superare le soglie dei parametri dell’abilitazione scientifica alla docenza universitaria ha finito con il fare perdere di vista la bussola che dovrebbe avere ogni serio studioso, ovvero innovatività e originalità, efficacia e consistenza culturale e scientifica delle pubblicazioni: ricercare e poi scrivere per dimostrare l’esistenza di qualcosa di nuovo. La qualità dovrebbe contare molto più della quantità, eppure nell’accademia italiana non è affatto così.
Questo impoverimento del valore ma anche questo abbassamento della soglia di moralità è esattamente ciò che accade, purtroppo, a proposito dei concorsi banditi presso gli atenei italiani, tutti o quasi predeterminati e pilotati (come ha dimostrato l’inchiesta della procura catanese): la logica è la stessa, mancanza di trasparenza nelle procedure e non valorizzazione del merito nelle valutazioni.
Ora provo a farvi qualche esempio più pratico per dimostrare, come giustamente scrive Stella alla fine del suo articolo, che alla luce della crescita esponenziale di ricorsi e sentenze di accoglimento relative a concorsi truccati, e alla luce di questi meccanismi che dopano i risultati della ricerca, forse sarebbe il caso di cambiare una volta per sempre l’attuale sistema di reclutamento nell’università italiana. E non certo legalizzando la cooptazione – come qualcuno ha addirittura proposto – che sarebbe come dire rendiamo legale la raccomandazione e l’abuso che già vengono perpetrati attualmente con i paletti e le regole del bando pubblico, ma piuttosto rendendo più ferree e rigide le regole che già ci sono, in direzione di una minore discrezionalità e arbitrio da parte delle commissioni, e prevedendo un sistema di multe, sanzioni e sospensioni per chi abusa.
Il sistema funziona pressapoco così: ci sono convegni e conferenze, che prevedono la pubblicazione degli atti, dunque la realizzazione di pubblicazioni cosiddette scientifiche (fatte con soldi pubblici di tutti i cittadini messi dai dipartimenti degli atenei e gestiti senza alcun controllo), a cui partecipano ogni anno sempre gli stessi docenti, per lo più ordinari, che si conoscono tra loro e che decidono il bello e il cattivo tempo ai concorsi: scrivono su qualche foglio (come ha dimostrato l’inchiesta della procura fiorentina) quale candidato dovrà essere idoneo a questa tornata dell’abilitazione scientifica e chi dovrà aspettare zitto e buono il suo turno, e anche chi dovrà vincere il concorso a livello locale in questo o quel dipartimento (come viene segnalato sempre in anticipo nella casella pec dell’associazione “Trasparenza e Merito. L’università che vogliamo”). A questi convegni e conferenze i docenti partecipano solo pretestualmente per diffondere i risultati delle cosiddette ricerche scientifiche, ma il vero obiettivo di questi incontri annuali è piuttosto quello di “spartirsi le torte”, non solo quindi le assegnazioni predeterminate dei concorsi da ricercatore di tipo “a” o di tipo “b”, da professore associato e poi, le più ambite, da docente ordinario, ma anche altro: ad esempio decidere a chi andranno i premi per la miglior tesi di dottorato del settore, per la migliore pubblicazione del settore, che di solito vengono gestiti dalle cosiddette “società scientifiche”, divise per settore disciplinare. Allo stesso tempo il barone commissario (feudatario) Tizio dice all’allievo o al collega (valvassino o valvassore) Caio di inviare il suo articolo alla rivista di cui è direttore, editor, o membro del comitato scientifico il collega commissario Sempronio (confratello), ovviamente affiliato dell’altro, e lo fa – ecco il giochetto smascherato dalla ricerca in questione – citando una lunga lista di articoli degli altri colleghi che fanno parte della “famiglia”. A questo punto entra in gioco il “do ut des” tipico dell’accademia italiana: gli altri colleghi citeranno obbligatoriamente a loro volta quella sua pubblicazione perché lui è stato un bravo “confratello” e quindi va premiato. Le nuove leve di giovani studiosi vengono iniziate a questo meccanismo e presentate ai vari confratelli, che procedono per anni in questo gioco delle citazioni nelle pubblicazioni. Allo stesso modo accade per le pubblicazioni con più nomi, in cui la prima posizione da autore diventa il premio più ambito, riservato chiaramente sempre a chi è stato più fedele dell’altro.
Per il resto, il dipartimento, o meglio i nuovi “baroni” burocrati o bibliometrici di quell’ateneo (non quelli tradizionali che avevano quanto meno delle regole morali ed un livello scientifico altissimo), che hanno a disposizione i posti, chiamati “punti organici”, hanno il dovere di rispettare i vincoli di affiliazione familiare, parentale, amicale, massonica o di lobby. In questo contesto, come ben capite, ogni docente, giovane o vecchio che sia, che fa parte di questo sistema spartitorio e clientelare, è come un “familiare” di quel settore scientifico-disciplinare. E come si sa, tra famiglie legate da vincoli e da scambi che avvantaggiano i diversi contraenti, non ci si fa nessuno sgarbo. Tutto funziona così dunque: oggi un favore a me, domani ricambio il favore a te.
Questo vale però solo per i “familiari”, ovvero chi ha dimostrato fedeltà al sistema. Tutti coloro che non si piegano a questa logica sono – per citare l’ordinanza del Gip catanese – come degli “stronzi da schiacciare”. Il punto cruciale è che con la diminuzione progressiva dei fondi in dotazione dal governo e dal ministero agli atenei il sistema non ha retto l’urto; in molti sono stati costretti, pur avendo firmato quel patto, ad essere lasciati fuori per anni, a volte per lustri, anche per un decennio, e quindi alla fine il tappo è definitivamente saltato. Sono aumentati, come si diceva, i ricorsi ai Tar e le denunce in procura che hanno dato vita a sentenze epocali.
Ora, delle due l’una: o il mondo accademico stesso, o meglio quella parte onesta intellettualmente e moralmente, che pure esiste, si mobilita isolando questi meccanismi e chi commette i reati, oppure perirà e verrà travolta sotto i colpi dei contenziosi. Ai posteri, come si dice, l’ardua sentenza, non metaforica stavolta ma possibilmente giudiziaria.