Il tema dell’interdisciplinarità è uno dei sottofondi comuni delle discussioni pedagogiche degli ultimi decenni: difficile trovare un’occasione in cui, prima o poi, la sua ombra non venga evocata. Una rapida ricerca lessicale mostra come l’uso del termine decolla rapidamente all’inizio degli anni 60 per raggiungere il suo vertice e più o meno stabilizzarsi verso le metà degli anni 70: un concetto, quindi, strettamente legato ai vari movimenti di rinnovamento della didattica che caratterizzano in maniera più o meno rivoluzionaria il secolo scorso.



Qualche giorno fa lo ha evocato per l’ennesima volta Gianmario Verona dalle colonne de La Stampa, usando questa volta un’espressione affine: “Servono programmi ibridi che permettano di contaminare, per esempio, un percorso di matematica con la filosofia”.

Ma che il consenso non sia così pacifico è stato mostrato quest’estate dall’acceso dibattito sulla prova mista di matematica e fisica per il liceo scientifico: un’innovazione che non soltanto ha ricevuto giudizi mediamente negativi, ma ha anche indotto a puntare il dito sull’abbinamento dell’insegnamento delle due discipline in una stessa cattedra e (già che il discorso era aperto) anche sugli accostamenti consimili (per esempio storia e filosofia). Nulla contro le vicinanze e le affinità: ma, appena esse vengono prese così sul serio da proporre qualcosa che assomiglia ad una fusione, immediatamente si alzano le prevedibili rivendicazioni della specificità di ogni singola materia, uniti ai timori che una delle materie coinvolte venga fagocitata dall’altra.



Ancora più accese furono le discussioni sulla “geostoria”, introdotta nel biennio delle scuole medie superiori e sovente (malgrado le sue rispettabili credenziali scientifiche) considerata un deplorevole ircocervo. Talvolta il discorso viene impostato in modo più radicale: un paio di anni fa conquistò le prime pagine dei giornali la notizia che in Finlandia, “la nazione con la migliore scuola del mondo”, l’insegnamento era ormai centrato non più sulle materie, ma piuttosto su un apprendimento “basato sui fenomeni”: uno degli esempi citati era una lezione su Pompei che “diventa uno spunto per confrontare Roma antica con la Finlandia di oggi, paragonando le terme romane con le moderne spa, o gli attuali impianti destinati allo sport con il Colosseo, di cui a fine giornata viene prodotto un modello solido grazie a una stampante in 3D”. È evidente che di fronte a questo scenario la tradizionale distinzione in discipline debba apparire arcaica, inadatta alla curiosità degli esseri umani e ancor più alla “complessità” (un’altra amata parola chiave) del mondo attuale.



Orizzontarsi in un tale fermento è tutt’altro che facile, soprattutto perché, di là della vaga aria di famiglia, vi sono in gioco problemi molto diversi, che verosimilmente possono ricevere risposte diverse.

Per esempio, altro è la scuola primaria, altro quella secondaria, altro l’università. In realtà già uno sguardo più attento a questa prima differenza è utile: quando infatti nell’università si parla di un corso di studio interdisciplinare il più delle volte si intende qualcosa che nella scuola è ovvio: il fatto cioè che nel medesimo curriculum siano unite discipline ritenute lontane. Con questo criterio la scuola è di per sé interdisciplinare: qualunque ne sia l’indirizzo e l’orientamento pedagogico, non c’è per esempio nessuna eccezione alla compresenza di un nucleo umanistico e di un nucleo matematico-scientifico. L’obiezione ovvia è che in questo caso si tratta solo di un accostamento di discipline, di “multidisciplinarità”, non di interdisciplinarità: se nel caso dell’università viene usato questo secondo termine, anche in mancanza di una fusione di orizzonti più profonda e meditata, ciò sarebbe solo perché ci si rassegna ad un obiettivo più modesto (spesso poco compreso dagli studenti: “perché mai devo fare un esame che non c’entra nulla?”).

L’obiezione ha un suo fondamento, ma probabilmente manca l’obiettivo e rischia di omettere qualcosa di decisivo. L’intervento di Gianmario Verona che abbiamo prima citato (che peraltro, come già detto, evita il termine tecnico di “interdisciplinarità”) evoca come esempio il modello anglosassone del “major” e del “minor”, in cui cioè è possibile scegliere in un curriculum accademico un tema come principale e uno come secondario in maniera sostanzialmente libera: il “minor” può essere scelto semplicemente per seguire una propria passione collaterale, oppure per completare la propria preparazione in prospettiva professionale (per esempio con un minor in pedagogia per chi intende insegnare), oppure, in maniera scientificamente più ambiziosa, per contaminare intenzionalmente campi di ricerca differenti (per esempio archeologia e scienze sociali, o, come nell’esempio prima citato, matematica e filosofia).

Si può parlare di interdisciplinarità in questo caso? In molti casi certamente sì: ma essa è affidata allo studente, non ai docenti. Se l’incrocio delle materie porta a qualcosa di nuovo, originale, imprevisto, ciò sarà merito di colui che studiandolo saprà trovare e creare punti di contatto tra discipline diverse, pur essendo esse insegnate ciascuna secondo il proprio metodo e i propri principi.

Che questo spostamento dell’onere sugli studenti sia inopportuno, o addirittura segno di pigrizia delle istituzioni, è molto difficile da sostenere. In fondo, affidare loro l’“ibridazione” delle discipline significa fare una scommessa sulla novità, sull’audacia della gioventù, anche su quell’ingenuità che non trattiene dal percorrere strade che a qualsiasi persona più esperta sembrerebbero azzardate o troppo poco promettenti. Un sistema accademico che offre agli studenti un materiale semilavorato non è insomma più avanzato di uno che offre materie prime da usare con creatività: è solo un sistema che non crede abbastanza in loro. Se il sistema universitario italiano viene osservato da questa prospettiva, la mancanza è evidente: combinare un “major” e un “minor” non è possibile se non nella forma ridottissima dei famosi “crediti a scelta” (che peraltro talvolta vengono già previamente indirizzati verso discipline interne al corso di laurea, vanificando quindi la loro possibile funzione di stimolo ad uscire fuori dal proprio campo): davvero poco a che vedere con uno studio che nel sistema anglosassone è sì “minor”, ma comunque si sviluppa normalmente lungo tre anni accademici. Se poi un corso di laurea con voglia di rinnovamento si azzarda a proporre una scelta troppo ampia di “discipline affini e integrative” (vuoi unire lo studio della filosofia con la storia dell’arte? con l’informatica? con il diritto? con la matematica? Puoi farlo!), prevedibilissimo arriverà il giudizio negativo di qualche entità superiore. Dall’altra parte e contraddittoriamente, la moltiplicazione di lauree (e, prima di esse, di classi di lauree) nasce evidentemente dalla volontà di offrire prospettive nuove combinando discipline antiche: ma, appunto, sotto la forma di semilavorati.

Siamo dunque in presenza di una possibilità di interdisciplinarità da prendere in considerazione, magari con qualche ritocco alla legislazione vigente e con la concessione di margini un po’ più ampi di autonomia alle università? A mio avviso sì. Anche perché (è evidente da quanto detto) ciò potrebbe avere l’effetto collaterale di alleggerire la discussione sulla scuola da preoccupazioni esagerate e poco centrate: “mutatis mutandis”, anche per un bambino, a cui le varie materie sono insegnate separatamente e ordinatamente, è aperta la strada di unirle creativamente, in un modo che forse i suoi insegnanti non avrebbero mai potuto immaginare. Sarebbe davvero grave se si pensasse invece che un bambino curioso che sente parlare del Colosseo non sia in grado, prima che qualcuno glielo dica, di confrontarlo subito e spontaneamente con lo Stadio Olimpico.