Roger W. Babson, economista statunitense nella prima metà del XX secolo, è famoso anche per una sua celebre asserzione: “Prevedo che il 1929 sarà un anno di prosperità”. Sappiamo tutti come andò a finire.

Un anno fa nessuno avrebbe mai immaginato che, nel giro di pochissimi giorni, sarebbe stato costretto a trasferire ufficio, scuola, amici, negozi, in certi casi addirittura gli aperitivi (la lista è ancora lunga, e ciascuno potrà arricchirla con la propria esperienza) in uno o più dei propri dispositivi, tra le quattro, solite, mura di casa. Ci troviamo in un periodo caratterizzato dall’imprevedibilità, che ha irrimediabilmente modificato le nostre abitudini. La complessità dell’epoca che stiamo attraversando, “non un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca” ha detto in tempi non sospetti Papa Francesco, si è approfondita con l’insinuarsi nella nostra società di un microscopico virus. Una realtà complessa richiede altrettanto complesse analisi: invita a non rimanere in superficie, ma a leggere attentamente i segnali, studiarli, prima di rischiare proponendo previsioni che, nella peggiore delle ipotesi, o risultano grossolane non appena le si pronuncia, oppure, semplicemente, non superano il vaglio della storia, che presto o tardi le sconfesserà.



Tra le smentite più recenti, e forse tra le più apprezzate e ancora meno comprese, ce n’è sicuramente una legata all’università: l’anno scorso c’era chi avrebbe giurato che gli atenei italiani sarebbero usciti sfiancati dalla sfida lanciata dal Coronavirus, diminuendo drasticamente le proprie immatricolazioni. Nulla di tutto ciò è successo e, anzi, le iscrizioni sono addirittura aumentate. Si parla di un incremento di circa sette punti percentuali, ma i dati non sono ancora ufficiali. Cosa suggerisce questo risultato a proposito dei giovani italiani?



Sicuramente, la decisione di tanti diplomati di iscriversi in università nonostante il periodo di profonda incertezza, indica dove i ragazzi ripongano la speranza per una ripartenza, innanzitutto personale. Quasi un intero anno di Dad e il protrarsi inarrestabile di una crisi che non ha eguali dal primo dopo guerra, non ha scalfito il desiderio di continuare a formarsi. Se per un giovane la riscossa risiede in questo slancio verso l’accademia, il paese non deve semplicemente esultare per un risultato che ha ribaltato tutti i pronostici, ma interpretare questo fenomeno come una chiara indicazione di metodo. Sembra scontato dirselo, ma non lo è affatto, soprattutto in un contesto dove una cattiva politica ha abituato a logiche di sussidio.



Una recente ricerca condotta da Swg, d’altronde, conferma l’attenzione che l’istruzione si è finalmente meritata: il 61% del campione intervistato destinerebbe le risorse del Recovery Fund a formazione e ricerca.

D’altra parte, neppure le università possono certamente allentare la tensione, festeggiando lo scampato pericolo. Occorre già ragionare su diversi temi che richiedono attenzione: che università hanno incontrato i diplomati del 2020? Che esperienza di università stanno facendo? Si può realmente affermare che fare l’università sia accedere dal proprio pc ad aule virtuali, a lezioni in streaming, blended e a tutte le altre soluzioni escogitate per reagire alla pandemia? Che tipo umano varcherà la soglia dell’ateneo, con quali esigenze o aspettative, trasformate e deformate dall’eccezionalità del lockdown?

In un contesto simile, per esempio, il fenomeno del drop out, già abbastanza diffuso, potrebbe ridefinirsi, aumentando. Sono tutti interrogativi che chiedono di non essere lasciati in sospeso, ai quali le istituzioni universitarie sono chiamate a rispondere, per immaginare nuovi modelli, interventi a sostegno del giovane che si approccia ad un mondo sconosciuto, con regole e dinamiche abissalmente diverse da quelle che hanno sempre ordinato la sua vita nel perimetro della scuola, la cui assimilazione è complicata ancor di più dalla lontananza fisica. Se da un lato le università devono colmare questo gap creatosi dalle inevitabili circostanze legate alla pandemia, ideando, creando e potenziando le infrastrutture che aiutino le giovani leve ad orientarsi nel sistema, dall’altro occorre anche, certamente, che le attività di orientamento vengano irrobustite.

È tuttavia un abbaglio ritenere che le università siano le sole responsabili di un compito così delicato, che non può non avere radici già nella scuola superiore, in un paradigma pedagogico basato sull’alternanza formativa. Servirebbe stringere ancor di più la collaborazione scuola e università, in un circolo virtuoso, anche lavorando su strumenti già esistenti, come i Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (Pcto, ex alternanza scuola lavoro): strumenti e iniziative che, se ben utilizzati e progettati, permettano agli studenti di acquisire criteri utili a scoprire loro stessi, le proprie potenzialità, e a direzionarle più chiaramente.

Sebbene il calo demografico, ricordato qui di recente, sia certamente un fenomeno preoccupante, non sembra una ragionevole soluzione al problema quella di guardare verso paesi il cui il tasso di natalità superi il nostro, come bacino potenziale per riempire i posti lasciati eventualmente vacanti dai tanti italiani non nati. Nell’articolo si citava l’Africa e una domanda sorgeva spontanea: quanti dei 190 milioni di africani in età universitaria, “disponibili” nel 2040, avranno la fortuna di possedere un titolo di studio idoneo all’accesso al sistema formativo universitario europeo? L’internazionalizzazione della nostra offerta formativa è certamente un tema cruciale, ma la leva per migliorare l’attrattività degli atenei nostrani non può essere solo l’identificazione di un determinato paese demograficamente ricco di potenziali risorse, in una logica di mercato peraltro estranea agli scopi per i quali le università esistono.

Nell’ultimo rapporto della Crui sul tema, non a caso, si fa riferimento alla connaturale tendenza delle università a essere luoghi di contaminazione di culture: “Sappiamo che promuovere e alimentare queste migrazioni e questi percorsi corrisponde a un’antica vocazione delle istituzioni di formazione superiore. Le università e le accademie nascono ben prima degli stati nazionali e hanno sempre rappresentato nodi di itinerari di lungo raggio. Anche nelle fasi storiche in cui più accese sono state le contrapposizioni religiose o, più tardi, le febbri nazionalistiche, nelle università è rimasta viva la fiamma del cosmopolitismo del sapere. Strano sarebbe che quella fiamma si spegnesse in un’età come la nostra, in cui le distanze geografiche si sono attenuate sino a farci vivere, in quello che – con espressione ormai già vecchia – abbiamo chiamato il villaggio globale”.

La crescente competizione dei colossi tecnologici, altro tema affrontato, è senza dubbio un fenomeno interessante che, per ora, è per lo più circoscritto al mercato d’oltreoceano, dove non esiste l’annosa questione del valore legale del titolo di studio. Tuttavia, l’America ha sempre anticipato fenomeni che, prima o poi, vengono affrontati anche fuori dai suoi confini. È degna di lode l’iniziativa delle grandi multinazionali, che avvertono tutta l’urgenza di offrire percorsi per l’acquisizione di competenze in ambito tecnologico e, anzi, rappresentano un potenziale incredibile, soprattutto in ottica di lifelong learning. In proposito, in un recente saggio dal titolo Human work in the age of smart machines, ha scritto Jamie Merisotis, presidente e Ceo della Lumina Foundation, la cui missione è aumentare la percentuale di americani con lauree, certificati e altre credenziali di alta qualità: “work is changing in unprecedented ways as technology and artificial intelligence take over more of the tasks people used to do. The robots might or might not be coming to take our jobs, but it’s clear that society is being thrust into a new era of human work: the work only humans can do in the age of smart machines”.

La sfida interessante per l’istituzione universitaria, allora, non è tanto preparare i giovani ai lavori del futuro, peraltro sconosciuti, piuttosto fornire loro gli strumenti perché il futuro non li trovi impreparati ad affrontare le immense trasformazioni che si prospettano all’orizzonte. Non, quindi, trasferire competenze meramente tecniche – non è mai stato questo il compito precipuo dell’università – ma approfondire le caratteristiche tipicamente umane, che saranno la vera forza per affrontare un mercato che si trasforma alla velocità della luce. Il dialogo con le aziende, stakeholder imprescindibili per guardare insieme alle esigenze emergenti del mercato, è fondamentale; tuttavia l’università non può snaturare la propria particolare missione, riassunta recentemente nel documento University without walls, redatto dall’European University Association: “When looking to the future, we envision university without walls; these are universities that are open and engaged in society while retaining their core values. All of Europe’s universities will be responsible, autonomous and free, with different institutional profiles, but united in their missions of learning and teaching, research, innovation and culture in service to society”.

E, pertanto, un panorama complesso quello che appare all’orizzonte: c’è necessità di un’analisi organica, che cerchi di tenere in considerazione la totalità dei fattori in gioco.

Su una cosa, d’altra parte, tutti concordano: la necessità che il sistema di formazione goda di tutti i finanziamenti necessari al suo potenziamento e al suo sviluppo.

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