Sono state mattine diverse queste dal 10 al 13 maggio per Via Zamboni. La scritta “CBN” lungo i portici, i festoni tremolanti al vento davano un senso di placida bellezza nella prima luce, e Piazza Scaravilli brillava sotto intermittenti scrosci di pioggia. Qualcosa era davvero diverso: quel luogo, mero punto di transito per migliaia di universitari, viveva un’attenzione nuova, era stato curato e decorato per ospitare il “Campus by Night”, evento dell’associazione studentesca Student Office giunto alla ventesima edizione e intitolato “Un’amicizia per vivere, vivere per un’amicizia”.



Il Campus, d’altra parte, per me era iniziato già da qualche mese, da quando, a febbraio, avevo deciso di collaborare alla realizzazione della mostra “Un’amicizia per vivere”, sulla figura umana del Servo di Dio Enzo Piccinini. Il lavoro che ne era seguito era stato tanto appassionante – per la profondità di ciò che a mano a mano scoprivamo e per le amicizie che intanto nascevano –, quanto impegnativo, con nottate intere spese tra il costruire, il limare e le ultime, inevitabili parole prima di salutarsi: “Alle quattro di notte come fai a non essere grato?” La stessa gratitudine pervadeva quelle mattine, nel vedere la mostra stagliarsi lungo i portici e nel pensare alla possibilità di incontrare i colleghi in università e la città di Bologna e di condividere con loro le domande che avevano segnato il nostro percorso. In particolare, la citazione di Emmanuel Mounier, filosofo francese del 900, che apriva il percorso della mostra: “È assolutamente necessario che diamo un senso alla nostra vita. Non quello che gli altri vedono e ammirano, ma il tour de force che consiste nell’imprimervi il sigillo dell’Infinito!”.



Era sorprendente vedere, mentre spiegavo la mostra a persone a me sconosciute, balenare nei loro occhi questa necessità, che ha caratterizzato così profondamente la vita di Enzo, e sentirli a me accomunati in un desiderio di felicità. Penso ad un gruppo di universitari di Milano con cui, dopo la spiegazione, mi sono fermato a parlare, alla subitanea familiarità che nasceva nel domandarci: “È possibile vivere così?” Penso ai miei genitori, a mia sorella, con cui ho potuto condividere la profondità di questa ricerca, entrata nella mia vita grazie all’incontro con Enzo.

Che, insomma, il luogo in cui studio possa diventare alveo dove guardare in faccia le questioni che agitano il cuore dell’uomo e quelle che scuotono i nostri giorni di universitari, questo è davvero incredibile. Nel pomeriggio del terzo giorno di Campus si è tenuto un incontro intitolato “L’università e il gusto di crescere insieme: lo studio è solo ansia o qualcosa di più?”, con la partecipazione di Tommaso Agasisti e Marco Bersanelli, due professori di Milano. Non è mistero che nelle università italiane lo studio sia avvertito come una soffocante corsa verso un risultato che definisce il valore della propria persona e, personalmente, tra i miei colleghi di lettere classiche, ne sento chiaramente la pesantezza, che cancella ogni possibilità di crescita. È stato meraviglioso ascoltare il prof. Bersanelli mentre ci richiamava al fatto che lo studio sia un pezzo della nostra vita, non la totalità che ci definisce, per cui ciò che chiamiamo fallimento altro non è che un percorso umano, magari accidentato, ma che avanza verso il suo compimento, e ciò che mantiene vivo quel lavoro, quella passione è un impegno con la vita intera. E, aggiungeva il prof. Agasisti, questo sguardo verso di sé non è possibile senza un’amicizia che ti indichi la tua “dignità assoluta di essere umano nell’universo”. Quanto è interessante, vivificante varcare le soglie di Via Zamboni con questa coscienza?



I quattro giorni di Campus by Night, pieni della bellezza che ho descritto, sono giunti al termine. Mi accorgo sempre più che, invece, quest’impegno non finisce, ma continua ogni giorno entrando in università, che è un po’ casa mia, e vivendo un’attenzione nuova verso le persone che ho davanti.

Pietro Matassoni

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