Nonostante le difficoltà che si sono prodotte sul tema del green pass, dei vaccini e – non ultimo – a motivo delle elezioni regionali, il cui risultato pare abbia creato qualche problema anche rispetto alla compagine che sostiene il Governo, possiamo dire che le politiche finalizzate a spendere i fondi europei sono ampiamente cominciate.



Certo, si tratta di una partenza in salita, ma – come si disse a suo tempo a proposito di ben altre incredulità – “eppur si muove”. Altri potranno, dal loro punto di vista, attestare o smentire questa affermazione (ad esempio, menzionando quanto si sta facendo sul piano del nuovo Ufficio del Processo o degli sgravi fiscali per l’edilizia, con rimborsi fino al 110%), ma è indubbio che – ad esempio – dei fondi per la ricerca sono stati destinati e hanno mosso le università ad agire per procurarsi alleanze capaci di cofinanziare i nuovi posti di ricercatore e le nuove borse di dottorato attribuite loro dal ministero.



A tutte le università italiane sono stati infatti destinati nuovi posti e nuove borse di studio che dovranno essere attivati a brevissimo: una corsa alla ricerca dei partner, ai bandi e alle procedure di assunzione che non ha pari nell’immediato passato e che ha mosso persino la classe accademica, la quale, in pochissimo tempo, pare sia riuscita nell’impresa.

Si segnala soprattutto in questa fase la capacità di attrarre fondi per il cofinanziamento; pur in assenza di dati, si può dire che molto si è reperito dalle imprese, dagli studi legali e professionali, dalle fondazioni, dal terzo settore eccetera, a riprova del fatto che, quando ci si muove, qualcosa intorno a sua volta si muove, fino a mettere sul piatto anche fondi e di non poco momento. Basti pensare che per i posti da ricercatore il cofinanziamento richiesto ai partner ammontava a circa 50mila euro: trovarli in poche settimane è stata un’impresa importante sia sul piano dei partecipanti sia su quello dei riceventi, cioè le università.



Certo, non si può negare che l’intera operazione sia stata irta di difficoltà e che la relativa implementazione sia una strada in salita. E, tuttavia, se vogliamo parlare di sussidiarietà, in molti casi si è avuta l’impressione che i privati (profit e non profit) abbiano aderito volentieri, segno della loro disponibilità a partecipare (quanto meno) alla rinascita di un Paese fermo da tanti decenni, e non solo per il Covid. E anche ad un bisogno diffuso di rimettere mano ai propri programmi di ricerca in collaborazione con le università che, da questo punto di vista, possono essere ancora una sorta di garanzia.

E anche le università hanno dimostrato di essere pronte a fare la loro parte: in qualche (raro) caso hanno finanziato tutto direttamente, senza finanziamenti da parte dei partner, se non quelli che comunque offrivano solo la possibilità di fare gli stages previsti e obbligatori.

Quest’ultimo aspetto è degno di interesse: le nuove posizioni di ricerca non dovrebbero andare a rimpolpare le fila del precariato universitario, ma dovrebbero poi produrre assunzioni nelle aree di lavoro dei partner. Si tratta, evidentemente, di una scommessa su cui val la pena di puntare.

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