Il titolo del prossimo convegno dell’associazione culturale Universitas-University previsto a Chiavari per il 21-23 febbraio “Artificiale o Intelligente? Per una comunità universitaria pensante” pone volontariamente in evidenza una criticità concettuale che scuote potentemente il castello di ottimismo costruito intorno all’Intelligenza Artificiale (AI).
Il rapporto tra questa e l’università come luogo di formazione e ricerca non è analizzabile senza prendere atto delle trasformazioni alle quali quest’ultima è attualmente sottoposta. Ai fini tanto di sviluppare l’accesso ad una fascia più ampia della popolazione quanto di assicurarsi degli standard sempre più qualificati sul piano del trasferimento di conoscenze e dell’acquisizione di competenze, l’università italiana è infatti da tempo sottoposta ad un consistente processo di formalizzazione burocratica.
Quanto questa strategia, come asserisce Onorato Grassi, abbia comportato una nuova “situazione culturale e umana in università” costituisce un argomento tanto aperto quanto sostanzialmente ignorato. Nella logica del processo di formalizzazione in corso ci si interroga infatti più sui progressi che, a seguito dell’inserimento dell’AI, potrebbero essere realizzati nei diversi piani della formazione, della ricerca, dello studio e dell’amministrazione, che non sulla trasformazione degli ambienti morali che strutturano la vita universitaria e nei quali si instaurano relazioni significative, con gli altri come con sé stessi.
La presa di posizione tardo-progressista attualmente imperante vede nell’innovazione tecnologica la strada principale per risolvere le criticità che la ricerca di standard sempre più qualificati apre sul fronte tanto dei docenti quanto degli studenti. Questa prospettiva confina volentieri ogni critica all’AI negli scaffali della “nostalgia romantica”, quando non addirittura in quelli di un pensiero conservatore che mira a non modificare nulla in una società nella quale tutto cambia.
Si tratta di una squalifica tanto ridicola quanto inesistente, se non altro perché, in realtà, ogni mutamento va sempre preso in considerazione, non solo in ragione di quel “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono” che è alla base della posizione dell’apostolo Paolo nei confronti delle nuove profezie, ma anche della sana critica intellettuale di ogni epoca, dove al “ciò che è buono” può essere sostituito il “ciò che è essenziale”.
Si può – e quindi si deve – prendere in considerazione l’AI dopo essersi resi consapevoli di cosa costituisca l’essenziale nell’università, ciò che va trattenuto.
Un tale essenziale non è affatto dato, come comunemente si crede, dal puro trasferimento di conoscenze e dall’acquisizione di competenze. Per quanto entrambe costitutive, queste due funzioni sono piuttosto la conseguenza di quanto le precede e costituisce il vero “essenziale” dell’università. Si tratta della comprensione dei processi che sottostanno ai fenomeni osservati nell’ambito delle scienze fisico-naturali, quanto della conoscenza dei fatti storici e delle scelte culturali rilevati nell’ambito delle scienze umane.
Si tratta, in altri termini, di comprendere la ragione che sta dietro alle domande sulla realtà che gli uni e gli altri si pongono: una ragione che si è sempre tradotta in un’urgenza, non di rado drammatica, di risposte. È la folla dei “perché?” ad ingombrare i tavoli di lavoro degli analisti delle scienze fisico-naturali come le scrivanie degli studiosi di scienze umane. Nulla, assolutamente nulla, nel pensiero di ogni luogo e di ogni epoca si è mai prodotto senza il radicale e profondo desiderio di risposta alle domande di fondo che alimentavano ed alimentano ogni singola scienza fisico-naturale, ogni disciplina storico-sociale così come sono alla base di ogni espressione artistica.
Ora è anche altrettanto vero che nulla di questo desiderio può essere semplicemente menzionato senza essere rivissuto in chi lo presenta. Non si tratta infatti di trasmettere una nozione, ma di recuperare l’urgenza di una domanda, alla base della quale non c’è nessuna banale curiosità, bensì l’ansia – a volte l’angoscia – del comprendere. Pertanto la priorità di ogni docente non è affatto quella di “trasmettere delle informazioni” bensì di far precedere ciascuna di queste dalla domanda che le ha generate, dall’urgenza che ha mosso il biologo quanto il fisico, esattamente come ha agitato lo storico quanto il filosofo, commosso l’analista come l’artista.
Trasmettere in modo efficace implica pertanto il possedere la capacità di “rivivere” ogni volta la domanda iniziale: quella dalla quale è scaturita, di volta in volta, la singola ricerca nell’ambito dei fenomeni fisico-naturali, così come è nata la singola riflessione, rigorosamente orientata e analizzata, nell’ambito dei fatti politico-morali, così come è germinata la specifica opera d’arte.
Si tratta in altri termini di quella “comprensione empatica della domanda” che è alla base di ogni studio e che chi insegna deve saper trasmettere a quanti studiano. Solo la ricezione empatica della domanda garantisce, a fine lezione che, diventando la pietra angolare della conoscenza di volta in volta particolare, questa costituisca lo scaffale sul quale è possibile collocare le singole risposte. Così come è solo una sua ricezione empatica a poter essere custodita nella memoria individuale, in quanto va ad aggiungersi all’insieme di domande che muovono la vita personale di ciascuno; una vita che è, essenzialmente, vita con il pensiero, dialogo permanente che ciascuno intrattiene con sé stesso.
È la felice percezione di un tale passaggio, che dal trasferimento delle nozioni risale alla comprensione dei processi e dei percorsi, che porta ogni singola disciplina a non ridursi più ad essere una semplice banca dati per rivelarsi invece come un laboratorio in attività, un cantiere costantemente al lavoro.
È a questo punto che il percorso di studio universitario ha un valore “per sé”, indipendentemente dallo sbocco professionale che può aprire. Ed è su questo processo che l’università come luogo di comprensione dei processi fisico-naturali e dei percorsi storico-sociali dà i suoi risultati migliori: quelli che restano per sempre ed edificano l’abito culturale di ciascuno.
Fuori da questo processo non ci sono che attività funzionali e strategie strumentali sulle quali non è edificabile nessuna relazione significativa, ma solo, come suggerisce ancora Onorato Grassi, “comunità occasionali” caratterizzate da “legami deboli” dettati da “temporanei interessi convergenti”. L’insieme di queste attività e di queste strategie non fonda nessuna università, ma solo scuole di apprendimento, valide per inserirsi nel mondo del lavoro, ma sostanzialmente ininfluenti nella vita del singolo ai fini di qualsiasi personale consapevolezza.
Quando la scoperta dello studio universitario come valore per sé non affiora alla superficie, il laboratorio non desta interesse e la conoscenza si riduce al semplice trasferimento delle informazioni, mentre la comprensione dei percorsi intellettuali e cognitivi che alimenta le scienze umane si riduce ad essere poco più di una curiosità intellettuale.
È quindi solo in apparenza che il problema della formazione e della ricerca possono essere risolti affidando le funzioni di comunicazione e controllo, attualmente svolte dai docenti, a sistemi esperti in continua trasformazione dei quali l’AI finirebbe per costituire la chiave di volta.
In realtà non esiste nessun trasferimento delle informazioni, né acquisizione delle competenze senza lo stabilirsi di relazioni significative che si instaurano sia tra docenti e studenti, sia all’interno delle rispettive comunità di scopo che prendono forma tra gli uni come tra gli altri.
Una tale dinamica relazionale vive essenzialmente di empatia, fuori dalla quale non c’è che un’acquisizione di informazioni ed un controllo delle conoscenze, tanto funzionalmente operativa quanto puramente preliminare ai fini di una consapevolezza eternamente rinviata. Un’acquisizione che perde l’essenziale.
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