“Pover* universit* di Udin*, la stoltezz* ti ha toccat*”. È il commento lapidario dello storico Giordano Bruno Guerri sui cartelli esposti dall’Università di Udine per promuovere la propria asserita inclusività, cartelli indicanti che l’ateneo “cresce per tutt* e con tutt*”. È un commento che Bruno Guerri ha espresso utilizzando la supposta nuova rima asteriscata, multiforme e impronunciabile, come sanno bene anche a Radio Radicale.
Nel contempo, giocando su un altro slogan, “Hic sunt futura”, contenuto negli stessi cartelli, la Fondazione Luigi Einaudi ha rincarato la dose, aggiungendo il commento “Speriamo proprio di no”.
E al Messaggero Veneto, quotidiano locale del Gruppo editoriale Gedi, ha dichiarato la sua contrarietà anche Michelangelo Agrusti, presidente di Confindustria Alto Adriatico e di Pordenone, dicendo che “al Consorzio universitario di Pordenone quei manifesti non li vogliamo. Le reputazioni delle università e la loro inclusività si guadagnano attraverso la validità degli insegnamenti in tutte le discipline. Immaginare che un asterisco sia segno d’inclusività e modernità è una cosa ridicola, se mai è segno di decadenza importata da un processo delirante nato negli Usa; la cancel culture e l’esasperazione delle idee gender stanno portando alla fuga delle teste migliori dalle università e degli insegnanti che si oppongono al delirio distruttivo di un Paese in declino”.
Però, beata lei, è proprio contenta di queste stroncature Valeria Filì, delegata dal rettore di Udine alle Pari opportunità, perché ha raggiunto il suo scopo; infatti, ha dichiarato che “più se ne parla meglio è”, anche perché “in quell’asterisco ognuno ci mette quello che vuole. Nel mondo arcobaleno sanno benissimo che al posto dell’asterisco ci sono tutte le lettere, è ovvio che quando scrivo non utilizzo l’asterisco, ma in un messaggio diretto si può utilizzare. Poi è chiaro che se dobbiamo scrivere un regolamento o un testo di legge usiamo il genere maschile che include tutti”.
Più chiaro di così!? O meglio, non proprio il massimo della chiarezza e della linearità. Perciò, non sono dello stesso avviso l’assessore regionale alla Cultura, Tiziana Gibelli, come nemmeno i deputati e senatori della Lega Aurelia Bubisutti, Raffaella Marin, Daniele Moschioni, Massimiliano Panizzut e Mario Pittoni, che hanno definito “assurda la scelta dell’ateneo di Udine. Il rispetto e l’inclusività non si misurano certo con l’utilizzo di un asterisco al posto del genere. I valori non sono contenuti dentro un segno grafico, ma piuttosto si trasmettono alle nuove generazioni attraverso l’educazione e la cultura. Così non si fa un passo avanti, ma si cerca solo un pretesto per avere visibilità con il rischio di correre verso il nulla”.
Anche Roberto Novelli, deputato di Forza Italia, dissente e si chiede “Ma siamo sicuri che sia questa la strada giusta? Io sono convinto che si stia esagerando. Questo contribuisce a cancellare l’identità di genere. Si mette l’asterisco per non specificare il genere a cui ci si rivolge”.
Del resto, il dissenso si manifesta anche tra i docenti dell’Università di Udine. Ad esempio Gianluigi Gigli, professore ordinario di neurologia, direttore della Clinica neurologica e di neuroriabilitazione di Udine, già deputato al parlamento italiano nella scorsa legislatura, ha riferito che “alla prima impiegata dell’università che mi ha scritto una lettera asteriscata ho detto che le vietavo di rivolgersi a me un’altra volta con un asterisco impronunciabile”.
Altri docenti non vogliono esporsi, ma fanno sapere che “tra poco c’imporranno anche la schwa, l’asterisco alla tedesca, perché il rettore è debole e certi personaggi spadroneggiano”, oppure assicurano di averne parlato con il rettore, che “concorda che si tratti di un’idiozia”.
Parla di stoltezza anche Massimo Borghesi, ordinario di Filosofia morale a Perugia, che, dopo aver postato sulla sua pagina Facebook la notizia dei cartelli dell’università di Udine, ha commentato “s’illudono se pensano in tal modo di catturare gli studenti”.
Sulla vicenda interviene pure Alessio Geretti, poliedrico parroco nella montagna carnica, curatore, tra l’altro, di tante grandi mostre d’arte, come anche uno dei pochi a confrontarsi pubblicamente alla pari con Vittorio Sgarbi. Secondo Geretti, gli ideatori dei cartelli esposti dall’università di Udine “sono assai confusi; dimenticano che una lingua rispecchia nelle sue strutture grammaticali alcuni fatti, come il sesso, che non è l’orientamento o il comportamento, ma un dato che in natura (lo dice anche la parola sexus, che significa ‘tagliato nettamente in due parti’) o presenta il cromosoma y o non lo presenta (non si danno terze possibilità). Il greco e il latino, ad esempio, conoscono anche il neutro, per le realtà che non vengono assimilate al maschile o al femminile. L’italiano non lo ha. Conosce sostantivi collettivi che sono femminili (università, ad esempio). Perché la parola università è femminile? Sarebbe interessante domandarselo. Esistono collettivi maschili, come ad esempio “omnes” in latino, o “tutti” in italiano. Una realtà femminile può essere inclusiva e non far sentire subordinata o esclusa una realtà maschile? E viceversa? Penso proprio di sì. Se dobbiamo togliere le desinenze per essere inclusivi, abbiamo fatto nostra un’idea pessimistica. Invece, la cultura dell’inclusione è quella che educa le persone ad accogliersi e integrarsi reciprocamente. Altrimenti, dovremmo analogamente pensare che, per essere inclusivi dei non italiani, è necessario prescindere dall’identità culturale italiana. Ma come? Non dovremmo semmai fare il possibile perché l’italianità comporti di natura sua l’inclusione e l’accoglienza altrui? La censura della desinenza maschile o femminile mostra ulteriormente fragilità di pensiero: maschile e femminile sono categorie relazionali e relative, nel senso che ciascuno dei due concetti comporta automaticamente l’altro, come padre e figlio (uno non può essere padre se non esiste un figlio e uno non può essere figlio se non esiste un padre). Così qualunque desinenza si adoperi suppone l’altra – conclude Geretti – mentre un asterisco a fine parola è solo un incidente mentale e ottico per la lettura”.
Infine, alcuni interpellati rilevano che la conclusione dei manifesti udinesi “UniUd è inclusiva”, per coerenza di linguaggio e stile, è da correggere in UniUd è inclusiv*.
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