Caro direttore,
pochi giorni or sono, il prof. Antonio Scurati ha scritto sul Corriere della Sera uno di quegli articoli che hanno l’enorme pregio di stimolare la riflessione e di avviare virtuosi confronti fra coloro i quali ritengono di poter fornire un loro contributo. L’articolo lancia un grido di allarme sullo stato di grave crisi in cui versa il nostro sistema universitario, esplicitando come l’origine dei mali possa essere individuata, per un verso, nella troppa burocrazia e per un altro, nella gestione dei nuovi baroni, determinandosi così un crescente scollamento fra mondo accademico rispetto alla società. 



Mettendo le mani avanti, Scurati apre il suo articolo con l’esplicitazione della consapevolezza che sarebbe stato uno di quegli articoli che di solito non legge nessuno. Per il resto della sua analisi, contraddistinta da un pessimismo post-leopardiano, invece, non possiamo che esprimere piena e incondizionata condivisione. 



Condivisa la considerazione di fondo secondo cui l’università sia una delle istituzioni cruciali per il futuro della nazione, della quale, però, sembra importare a pochi, Scurati ci informa che più di duecento docenti universitari hanno sottoscritto un documento, definito dall’autore come drammatico, in cui si descrive l’università italiana odierna come un territorio ”gravemente contaminato da un incidente nucleare, una landa desolata, popolato di animali morenti”.

Secondo gli estensori del documento, infatti, il mutamento catastrofico che si è abbattuto sull’università negli ultimi decenni – un veleno sottile, una catastrofe al rallentatore – avrebbe sortito l’effetto non soltanto di devastarne il paesaggio istituzionale, ma anche quello di desertificare gli animi delle donne e degli uomini che ci lavorano. Una distruzione terribile e paradossale: nella cosiddetta “società della conoscenza” – quella in cui il sapere assume un ruolo fondamentale per la vita sociale – condannata a morte lenta è proprio l’istituzione dedicata alle cose della conoscenza.



Difficile sconfessare cotanta puntuale descrizione dello stato dei fatti. Pienamente condivisibile risulta essere anche la successiva analisi sui principali responsabili della diffusione del riferito virus desertificante. Due sarebbero i principali responsabili: “la burocratizzazione ipertrofica e il correlato asservimento di ricerca e insegnamento a sedicenti logiche di mercato”. Il perno su cui ruota questo movimento a tenaglia di strangolamento dell’università è il mito soffocante e ossessivo della “valutazione”. Ogni collega universitario di ogni ordine e grado della Repubblica sa bene infatti come oggi sia obtorto collo “costretto” a dedicare una gran parte del suo tempo accademico a compilare questionari, schedari, certificazioni, accreditamenti, rendicontazioni, riesami, revisioni per mezzo dei quali, e qui la denuncia contenuta nel documento, rilanciata da Scurati, è sottoscrivibile, un elefantiaco apparato burocratico, il cui unico scopo è giustificare la propria esistenza, pretenderebbe di valutare l’operato in termini di efficienza produttiva dei predetti docenti universitari. 

Preso atto della denuncia contenuta nel documento da egli stesso sottoscritto, con l’enorme capacità descrittiva di cui è dotato, Scurati afferma come con “l’inizio del nuovo millennio, la vita del professore è sprofondata in un universo kafkiano di parametri pseudo–oggettivi, mediane, soglie, rating, metriche, decaloghi, indicatori, ‘somministrati’ da una pletora di organismi e protocolli – Anvur, Invalsi, Ava, Gev, Vqr, Asn – tramite i quali i burocrati del sapere vessano sistematicamente studenti e docenti, con l’unico risultato di spegnere in loro ogni autentico desiderio di conoscere, ogni libero impeto a sapere, ogni possibilità di fecondarsi reciprocamente nell’eterno e rinnovato mistero dell’insegnamento”.

Poesia pura ma dal sapore più che amaro. A me capito sovente di ritrovarmi, in virtù del mio pragmatismo, ad aggirarmi per i corridoi del mio dipartimento alla ricerca disperata di un collega, un amministrativo, uno studente, un passante, un usciere, eventualmente anche il parcheggiatore abusivo, a cui promettere grandi tesori e infinita gratitudine affinché al mio posto soddisfi il tributo da pagare alla burocrazia universitaria. Quando finalmente riesco nell’impresa del reclutamento, puntualmente mi risveglio dall’incubo che volgeva a lieto fine e lo sconforto della realtà mi riavvolge.

Come non condividere, dunque, anche l’ulteriore affermazione secondo la quale tutti i docenti siano “pienamente consci del fatto che questo presunto sistema di valutazione oggettivo della conoscenza prodotta e di quella trasmessa è una colossale menzogna”.

Il tratto di penna di Scurati raggiunge l’eccelso poi nella rappresentazione icastica “dell’ultima, ennesima, sfinita maschera indossata dalle vecchie baronie, ora anche spogliate di quel minimo di responsabilità che il rango comportava, per continuare a sopravvivere da parassiti di un sistema del sapere al collasso”. 

La raggelante analisi vira poi su ciò che viene definita la costante giustificazione di questa oppressione burocratica, ovvero il ricorso al feticcio del “mercato”, considerato senza mezzi termini ”una volgare impostura” che ha generato un progressivo scollamento tra l’università e la società. L’esito finale appare una desolante “produttività da castrati, l’efficienza della cavia da laboratorio costretta a mordersi la coda nel loop di una cattiva eternità”, ovvero come scritto da Alvesson, un contesto in cui, come “mai prima nella storia dell’umanità tanti hanno scritto così tanto pur avendo così poco da dire a così pochi”.

In questo punto della lettura dell’articolo sono stato sopraffatto da un pianto di gioia e di rabbia insieme. Come quando ci si ritrova ad abbracciare qualcuno con cui senti di condividere una tragedia, un lutto, una disgrazia, avendo temuto a lungo che l’altro vivesse quella vicenda con emozioni opposto alle tue. Siamo in tanti a pensarla così da anni, ne parliamo fra noi senza cavarne un ragno dal buco, come tendenzialmente accade agli accademici. In questi sciagurati anni, la rincorsa alla mediana per la partecipazione all’abilitazione nazionale ha portato veri e propri scienziati dei più svariati settori a spacchettare monografie in tanti articoli o ad assemblare monografie prendendo brandelli di articoli scientifici a seconda della bisogna.

Ovviamente, come afferma Scurati, di certo non c’è da rimpiangere la vecchia università delle baronie a viso aperto. E quindi che fare?

Prendiamo atto che siamo tutti pressoché concordi nel ritenere che il tentativo di riformare il sistema universitario attuato a partire dalla riforma Gelmini può dirsi fallito insieme alla terminologia da marketing che ha nascosto l’antica pratica della “marchetta”, assestando il colpo letale all’università che pretendeva di rianimare. Ricordiamoci che quella vecchia università ha prodotta questa nuova perché quella sfornava docenti attraverso concorsi locali che vedevano vincere candidati spesso senza l’ombra di un titolo o di una pubblicazione scientifica. 

Ma, oltre alla legittima formulazione delle doglianze formulate con estrema capacità raffigurativa, occorre offrire alternative, proposte, soluzioni, andando francamente oltre il mero invito del prof. Scurati al ritorno alla Costituzione repubblicana che prevede che “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.

Bisogna fare uno sforzo maggiore ed essere propositivi. Ci piacerebbe che, rilanciando il grido d’appello del documento su citato e dell’articolo di Scurati, il dibattito virasse sulla formulazione di proposte che, muovendo dalla necessità d’abbandono dalla logica della valutazione esasperata, riesca a individuare una migliore forma di reclutamento dei giovani docenti, agendo inoltre nella direzione, obbligata, della riduzione di quella spaccatura fra mondo accademico e società. 

Qui, ne siamo consci, il discorso si complica ma ben venga una discussione aperta e franca. A parere di chi scrive, l’università deve sapersi reinventare, interagendo con quella società che essa è chiamata a formare. A Napoli possiamo vantare l’esempio virtuoso della Apple Academy così come della creazione del primo spin off universitario in materie giuridiche, che si è prefisso di operare il trasferimento di conoscenze dall’accademia al mondo delle imprese nel campo della compliance, andando a competere in un mercato occupato da grandi società multinazionali della consulenza. Altri esempi virtuosi potrebbero farsi in questa direzione che segna la fine dell’autoreferenzialità tipica dell’accademia. Riprendendo ancora le parole di Scurati quando parla di mistero dell’insegnamento, occorre ribadire con forza che in quel mistero c’è l’essenza del nostro mestiere di docenti, ma che deve sapersi proiettare in un fine più ampio del mero indottrinamento fine a se stesso. 

L’università deve saper intercettare le esigenze del mondo che cambia, delle imprese che devono competere nella globalizzazione così come della pubblica amministrazione che deve saper essere più adeguata nel saper soddisfare le esigenze della cittadinanza. 

Un grazie al prof. Scurati che ha saputo accendere un faro, a tutti noi il compito di allargare quel fascio di luce nella speranza di illuminare anche la fase progettuale.