Ci sono due fatti collegati alla mobilità degli studenti universitari all’interno del Paese che spiegano l’urgenza di adottare strategie di lungo periodo sul tema a tutti i livelli istituzionali.

Da un lato, nei territori che vedono i propri studenti partire per immatricolarsi in atenei di altre regioni, i flussi in uscita si sommano in molti casi a un declino demografico vertiginoso. È il caso, per esempio, della Sicilia, che negli ultimi dieci anni ha visto la popolazione di 18enni ridursi di 10mila unità e, nello stesso periodo, ben 62mila studenti partire per immatricolarsi all’università in altre regioni.



Dall’altro, nei territori che gli studenti li accolgono, i flussi in entrata esercitano pressioni sul tessuto urbano, a partire dal tema dell’housing: la domanda di posti letto degli studenti che arrivano in città, infatti, esercita pressioni al rialzo sui canoni delle locazioni e, nei casi più critici, la difficoltà di reperire alloggi può costituire un freno allo sviluppo degli atenei del territorio. Un caso esemplare è quello dell’Emilia-Romagna, che ha visto quasi raddoppiare gli immatricolati in arrivo da altre regioni in dieci anni, e in particolare di Bologna. Nella provincia oggi c’è solo un posto letto in strutture convenzionate (Dsu o collegi universitari) ogni 24 iscritti fuori sede (in Francia, Paese virtuoso, questo valore è di circa un posto letto ogni 5 studenti).



Vista da tutti i lati, quindi, la mobilità studentesca costituisce un fattore di stress per i territori del nostro Paese. E, come abbiamo fatto nel report I trend da conoscere sulla mobilità studentesca, occorre inquadrare i tratti salienti del fenomeno, partendo da una consapevolezza di base: il numero di fuori sede è in crescita.

Dieci anni fa gli immatricolati che cambiavano regione per studiare erano circa 50mila, oggi sono oltre 65mila (il valore più alto di sempre). In questi spostamenti, le rotte più battute sono quelle che portano gli studenti da regioni del Nord Italia verso altre regioni del Nord Italia. Questi “flussi interni” al Settentrione d’Italia valgono un terzo di tutti gli spostamenti rilevati nell’a.a. 2021/22, e la concentrazione dei flussi in quest’area è spiegata da quattro fattori: (i) maggiore popolazione studentesca, (ii) maggiore reddito pro capite (e quindi capacità delle famiglie di sostenere le scelte di pendolarismo o trasferimento dei propri figli), (iii) maggiore offerta formativa e “competizione” tra gli atenei (e quindi maggiore scelta a disposizione degli studenti che si immatricolano all’università) e (iv) più efficaci collegamenti infrastrutturali, che incentivano le scelte di pendolarismo.



Subito dopo le rotte interne al Nord-Italia, le rotte più battute sono quelle che portano gli studenti dal Sud del Paese verso il Centro-Nord, che valgono oltre il 25% degli spostamenti totali. I numeri sono impressionanti: nel solo a.a. 2021/2022, ben 17mila studenti hanno lasciato il Sud per studiare nel Centro-Nord. Un volume di studenti pari quasi al numero annuale di immatricolati dell’ateneo La Sapienza.

Il “vincitore” di questa “partita dell’attrazione” è l’ateneo di Bologna, che nell’a.a. 2021/2022 ha contato oltre 11mila immatricolati fuori sede (ci si riferisce ai fuori sede nella definizione più ampia possibile, che individua come fuori sede tutti gli studenti immatricolati in una provincia diversa da quella di residenza, anche all’interno della medesima regione). E in alcuni casi, questi “campioni dell’attrazione” sviluppano una sorta di “dipendenza” dai fuori sede. È il caso di atenei come Bra Scienze Gastronomiche, Venezia Iuav, Ferrara e Siena Stranieri, in cui più di otto studenti su dieci sono fuori sede. E se questo concetto di “dipendenza” vale per gli atenei, deve valere anche per i territori che li ospitano. È esemplare il caso di Pisa, provincia in cui gli iscritti fuori sede valgono l’8% della popolazione residente: la presenza di questi studenti nel territorio porta consumi “aggiuntivi” per il tessuto produttivo locale e, in definitiva, maggiore reddito prodotto e valore aggiunto locale.

Oltre i campioni dell’attrazione, poi, ci sono i “campioni” dell’altra partita, quella in cui a vincere è chi trattiene il maggior numero di studenti all’interno dei propri confini regionali. È il caso del Lazio che, grazie a un’ampia offerta formativa, vede il 90% degli studenti della regione immatricolarsi in un ateneo sito all’interno del territorio regionale (primato che un decennio fa spettava alla Lombardia).

Da questi numeri, emerge come atenei e territori si esercitino nello sforzo di trattenere gli studenti dentro i propri confini territoriali e di attrarre studenti da altre aree del Paese. Ma per tutti, come fatto chiaro all’inizio di questo articolo, la mobilità è un tema di sostenibilità. Senza un controllo e una gestione adeguata, i flussi in entrata/uscita di studenti possono diventare problematici sia per i territori che attraggono sia per quelli che cedono studenti.

Per garantire efficacia e adeguata gestione, gli attori istituzionali sono chiamati alla sfida più grande: quella della coesione. Se è vero, infatti, che esistono aree di intervento di stretta competenza degli atenei (come le variazioni dell’offerta formativa e gli investimenti nell’orientamento), esistono delle leve che non possono essere attivate efficacemente senza una sinergia tra atenei e pubbliche amministrazioni: è il caso degli interventi sul contatto tra atenei e mercati del lavoro locali, degli interventi sullo student housing e di quelli sui servizi offerti agli studenti e ai pendolari. Senza coesione istituzionale, difficilmente iniziative in questi ambiti possono rivelare la loro massima efficacia. E senza efficacia, il prezzo dell’insostenibilità di questi flussi di studenti è a carico di tutti, anche se non ne parla nessuno.

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