Una (relativamente) piccola comunità territoriale ha sempre bisogno di creare luoghi in cui approfondire le proprie conoscenze, aprirsi al mondo e alle sue dinamiche e – al tempo stesso – consolidare la propria identità culturale per evitare di essere “omologata” rispetto al resto del mondo e cercare di offrire il suo specifico contributo. Un’occasione per fare questo percorso – al tempo stesso locale e globale – è quella di creare un ateneo universitario, come ha fatto, con tentativi durati per oltre 150 anni, il Cantone Ticino (353.343 abitanti nel 2019) testimoniando che, se si fanno “bene” le cose, si può giungere a risultati di eccellenza nello sviluppo territoriale, anche superando tante obiezioni e pregiudizi.
L’occasione per una riflessione su questa esperienza viene dalla recente pubblicazione di un volume (Pietro Montorfani e Mauro Baranzini, L’Università della Svizzera Italiana, Armando Dadò editore, 2021) e dal numero di agosto della rivista Nuova Atlantide, Conoscenza e università. AAA cercasi nuova classe dirigente, Fondazione per la Sussidiarietà.
Il volume ripropone tutti i passi di un percorso che la comunità ticinese ha compiuto nel tempo, con grande visione e determinazione. L’Università della Svizzera Italiana (Usi) viene formalmente inaugurata il 21 ottobre 1996, dopo numerosi e combattutissimi tentativi di dare una risposta alle istanze culturali di una comunità come quella ticinese, per decenni marginale (ed emarginata) dai processi di sviluppo del resto della Svizzera (tedesca e francese).
La dettagliata ricostruzione di tutto il percorso svolto è una testimonianza evidente di quali siano i fattori di successo dell’azione di una “piccola” comunità che agisce in un mondo globale e di come la sua “piccola” università (circa 3.500 studenti nel 2022 e un bilancio di quasi 100 milioni di franchi svizzeri, rispetto ai 325 studenti e al budget di 4,2 milioni di franchi iniziali nel 1996) abbia contribuito a questo ormai consolidato successo nel contesto internazionale. E fornisce anche robusti insegnamenti per un Paese come il nostro che non sempre ha avuto idee chiare sulla politica universitaria e sul contributo che essa può dare alla valorizzazione di territori differenziati come quelli italiani.
Scorrendo i vari capitoli del libro si impara, ad esempio, che le “economie di dimensione” (di “scala”, direbbero gli economisti) non siano necessariamente un requisito obbligatorio per il successo di un ateneo. Non basta avere tante facoltà, tanti studenti e tante risorse. Ciò che conta sono le relazioni (“economie di rete”) che occorre stabilire sia per il reclutamento degli studenti e dei docenti (più del 50% dei quali provengono da altri Paesi, Italia inclusa) sia per quanto riguarda i progetti di ricerca. Non è un caso che l’Usi abbia capito da subito l’importanza della sua internazionalizzazione (affrontando anche il problema della lingua di insegnamento): nella fase iniziale della sua vita, quando il principale attore era la città di Lugano; nella Fondazione che la gestiva, per esempio, era istituzionalmente presente anche un membro di una università “straniera” come la Bocconi; e ancora in questi anni vi è la presenza in consiglio di un ex rettore di università italiane.
Un secondo insegnamento che si trae dalla lettura del volume è quello che viene dalla robustezza della cooperazione locale. Non solo le istituzioni locali (prima la città di Lugano e poi il Cantone Ticino) si sono coinvolte a tutti i livelli, ma anche il sistema produttivo (in primis quello bancario e finanziario) ha contribuito con le sue risorse; e quello che chiameremmo il Terzo settore (25 tra fondazioni e associazioni), dà o ha dato il suo sostegno all’Usi.
Anche accordi con altri soggetti di ricerca e di informatizzazione hanno consentito alleanze preziose in attività a cui l’Università da sola non era ancora inizialmente in grado di far fronte. Il progetto di università era sostanzialmente condiviso dall’intera comunità locale e non solo l’esito di decisioni “politiche” top down.
Ciò è derivato anche da una capacità di attenzione e valorizzazione delle specificità della società e dell’economia locali. Non è un mistero riscoprire che il sistema bancario svizzero ( e anche ticinese) rappresenta un asset importante dello sviluppo territoriale. E pure la collocazione geografica di Lugano e del Cantone Ticino – “a mezza strada” tra due centri urbani e metropolitani come quelli di Zurigo e di Milano – è stata valorizzata come cerniera di scambi di persone e di merci. La prossimità di Lugano con Varese e Como ha inoltre dato vita a varie forme di complementarietà nell’accordo dell’Università dell’Insubria, una vera alleanza accademica transnazionale. L’attrattività ambientale del Lago di Lugano è stata infine un’altra esemplificazione delle sinergie che possono rappresentare le caratteristiche di un territorio per una ulteriore attrattività di studenti e docenti.
Non sarebbero tuttavia bastati i fattori “di contesto” per garantire alla “piccola” Università della Svizzera Italiana di acquisire il suo successo. Anche la componente qualitativa della formazione della didattica e della ricerca hanno contribuito in modo significativo. Ciò è avvenuto “nel tempo”. Nata intorno a due facoltà – quella di Scienze economiche e di Scienza delle comunicazioni – e all’Accademia di Architettura – (“valorizzando” un talento locale importante come l’architetto Mario Botta, noto internazionalmente) l’Usi si è presto allargata alla Facoltà di Scienze informatiche (2004) e a quella di Scienze biomediche (2014).
Questo insegna che la crescita di una università deve essere in ascolto della domanda formativa e non deve necessariamente essere disegnata e programmata in tutte le sue caratteristiche “sin dall’inizio”, ma che è frutto di un processo che sa cogliere le opportunità che via via si manifestano, sia di “maturazione” di bisogni culturali emergenti, sia di condizioni concrete di realizzazione. Nel caso dell’Usi, ad esempio, storicamente il bisogno della comunità ticinese di intraprendere percorsi formativi “umanistici” ha preceduto quelli più scientifici, senza preclusioni e discontinuità, ma “ascoltando” e cogliendo le condizioni di fattibilità ( accademiche, urbanistiche e finanziarie) che si andavano presentando.
Se la qualità didattica – e quindi l’attrattività per studenti e docenti – è stata un “ingrediente” necessario per la “piccola” università ticinese, anche l’efficienza gestionale ne è stato un requisito essenziale di successo. Prevedere organizzazione e regole di funzionamento rigorose – accompagnate da livelli remunerativi per i docenti fortemente motivanti – ha garantito ad esempio impegno e presenza degli insegnanti capaci di creare una efficace comunità formativa.
Infine, va rilevato un altro fattore di successo che potremmo ascrivere alla logica della sussidiarietà espressa dalla comunità ticinese: i livelli di servizio alla “vita” universitaria (non sempre presenti nei nostri territori con piccole università). Solo per citare due esempi, quasi ovvi, l’accessibilità all’Usi è stata garantita da un sistema di trasporti, sia locali che di media-lunga distanza; oltre ai servizi di residenza per gli studenti (pensionato e appartamenti messi a disposizione da famiglie) e di ristorazione diffusa. Questi servizi nascono anche in base ad una logica virtuosa “di mercato”: al bisogno espresso dalla comunità accademica corrisponde infatti la “convenienza” economica per i gestori dei servizi residenziali, per gli esercizi commerciali, per le imprese pubbliche private che possono fruire di risorse qualificate.
In conclusione, si può imparare a fare – e a fare bene – anche quello che talvolta, a priori, sembra difficile da realizzare: una piccola università di successo. Alla condizione che le pur esistenti resistenze e difficoltà non costituiscano obiezioni teoriche pregiudiziali, ma che ci si faccia guidare da esperienze virtuose di coinvolgimento condiviso dall’intera comunità locale.
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