Hamilton Hall (nome ormai notorio nella cronaca delle agitazioni studentesche all’Università di Columbia, New York) è in realtà una palazzina abbastanza imponente che ospita vari dipartimenti, fra i quali quello di italianistica. E si chiama così perché di fronte all’ingresso sorge, su una base di pietra calcarea che reca solo il cognome “Hamilton” a grandi lettere, una statua bronzea a figura intera di Alexander Hamilton, eretto ed energico come se si avviasse a un podio, con la mano destra portata sul petto e la sinistra che stringe una pergamena (potrebbe essere il testo della Costituzione americana).



È una statua significativa, a parte le ragioni folkloriche (Hamilton è il titolo di un non dimenticato popolarissimo “musical” del 2016), che comunque sono giustificate dall’elemento quasi romanzesco nella vita e attività di questo personaggio storico (1755-1804): alunno del King’s College (che poi si chiamerà Columbia University), aiutante di campo e segretario di George Washington, primo ministro del Tesoro nella storia della repubblica, importante saggista politico, uno dei collaboratori alla compilazione della Costituzione e come tale uno dei “Padri Fondatori”, morto ancora giovane in un duello.



Sì, vabbè, ma che c’entra? C’entra, perché questa statua è uno di quei totem, per così dire, che in ogni grande università, negli Stati Uniti come in Europa, simboleggiano la comunità degli studenti, docenti, amministratori ecc. nel loro senso di quotidiana appartenenza. Ed è tale anche per chi ne ignora l’identità esatta; anzi, forse soprattutto per chi la ignora: uno dei nostri dottorandi, formatosi all’Università di Venezia e ancora pieno di nostalgia per l’Italia, ci confessò una volta che – durante tutto il suo primo semestre a Columbia – continuava a essere convinto che quella statua di fronte a Hamilton Hall raffigurasse Carlo Goldoni (be’, l’epoca e l’abbigliamento quasi coincidevano…).



Vi è, in questo equivoco, qualcosa di quasi commovente: ogni espatriato, in fondo, vive in una lieve dimensione di sogno, come sollievo alla sua nostalgia. E questo tessuto sottile che, dal Medioevo in avanti, dà vita a una particolare forma di lealtà sociale la quale accomuna i “nativi” e gli stranieri dentro istituzioni come le università – perché ogni intensa comunità di pensiero è resa in certo modo fragile da questa sua stessa intensità –, proprio questo tenue tessuto è stato lacerato a Columbia nell’assalto studentesco seguito dal contrattacco poliziesco a Hamilton Hall (e chi sa in quanti altri luoghi deputati in varie università; e chi sa quando questi strappi potranno essere rammendati).

Domanda: ma che importano questi dettagli, di fronte al Medio Oriente che esplode in fiamme, e di fronte alla stragrande maggioranza dei quasi 336 milioni di abitanti degli Usa, la cui vita è radicalmente distante da questi cosiddetti “templi del sapere” (a meno che qualcuno nella loro famiglia vi venga ammesso)? Risposta: importano, e molto. Perché è chiaro che la Storia con la maiuscola è un fenomeno di superficie e di astrazione, che vive nascostamente di miriadi di casi individuali. E anche i non-studiosi di fisica sentono che il fratello maggiore della Storia, il Tempo, non ha un’identità più chiara di quella di sua sorella; e qui forse la frase più rivelatrice è anche quella che ha l’aria più banale: “Sembra ieri”.

Sembra ieri (diciamo, sembra il 1968), perché è ieri, e non nel senso di una noiosa ripetizione, come alcuni sentenziano: ogni ripetizione è anche una re-invenzione. Molti lo hanno intuito lungo il corso dei secoli, dai mistici di Oriente e Occidente fino a Nietzsche con la teoria dell’Eterno Ritorno; l’idea nietzschiana però, con il suo tono fra il demoniaco e l’eroico, trova il suo limite nella mancanza di compassione. Perché insomma, se noi viviamo nell’ombra dell’eternità, questo dovrebbe fra altre cose insegnarci ad accettare le ragioni degli altri – di tutti gli altri. Quando rientriamo in noi stessi (in entrambi i sensi del termine: “rientra nell’uomo interiore”, scriveva sant’Agostino), puntiamo al centro da cui si dirama il tutto. E non è una questione metafisica: è la questione di Gaza, la questione dell’Europa in guerra, la questione degli agitati campus universitari così negli Stati Uniti come in Italia e altrove; e via dicendo.

Le ragioni degli altri, si diceva. Gli studenti in agitazione a Columbia hanno trovato vari ostacoli sulla via della loro libertà di espressione: il lungo articolo recente (non un manifesto, non una “intervista” di un paio di battute, non una lettera al direttore) del “Consiglio Studentesco di Columbia” è stato ospitato non in un quotidiano newyorchese ma in un giornale britannico, The Guardian (continuatore ininterrotto del coraggioso Manchester Guardian fondato nel 1821). Il documento studentesco è tutto da leggere con attenzione; anche se il tono comprensibilmente partigiano non dovrebbe far del tutto dimenticare che l’amministrazione, insieme con molti professori, ha registrato, a fianco dei suoi errori, un continuo e serrato lavoro (come sa chi ne riceve i quotidiani aggiornamenti) per trovare una via di uscita.

Ma l’amministrazione dell’Università di Columbia ha un volto, quello della sua rettrice o rettore che dir si voglia, la sessantenne Minouche Shafik (il diminutivo Minouche è diventato il suo nome ufficiale): nata al Cairo (che ha lasciato bambina, ma padroneggia la lingua araba), divenuta proprio l’anno scorso la ventesima rettrice di Columbia. Doppia cittadinanza (britannica e americana), addottorata a Oxford, membro della Camera dei Lord del Regno Unito, economista internazionale che ha cominciato la sua carriera alla Banca Mondiale. In una parola, la candidata perfetta, pronta a pilotare la nave “Columbia” in una lunga, solenne, navigazione tranquilla. E nemmeno un anno dopo è scoppiata la tempesta…

Qualunque cosa declami la Storia, la vera storia si decide (come detto) sulla base delle esperienze individuali; e ciascun individuo deve far faccia ogni santo giorno alla propria costruzione o distruzione (come sanno bene i due ex-personaggi delle elezioni statunitensi che farebbero bene a lasciare il ring, rifarsi una vita e far posto ai candidati veri). Leggendo i messaggi continui che emanano da Minouche Shafik, uno ha l’impressione che questa donna, impegnata a lottare su vari fronti (la propria amministrazione, gli studenti, i professori, l’arroganza dei donatori che pagano “la ditta”) stia, in queste settimane, riplasmando il senso della propria esistenza, non solo professionale.

Impossibile prevedere come questo faticoso processo si concluderà; ma quel che è certo è che la cosa che chiamiamo storia dipende da questo e da tantissimi altri casi umani – da queste costellazioni stellari.

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