Non sono le cifre a produrre sconcerto. Una strage silenziosa, purché lontana dagli occhi e dal cuore, non fa vibrare alcuna corda emotiva, non provoca allarme, dolore, domande… L’aborto non è un tema che accende scintille di sdegno, molti teorizzano che non sia utile contrastarlo creando contrapposizioni “ideologiche”, per cui un rilevante numero di vittime – solo dal 1978 al 2015 se ne calcolano 5 milioni e mezzo – sono abbandonate alla generale dimenticanza, rimosse dalla consapevolezza collettiva.
Ultimamente persino veder connotata la soppressione di un essere umano con l’esercizio di un diritto inalienabile, un “diritto umano”, secondo la recente definizione introdotta dal Parlamento europeo, non ha prodotto significative reazioni nell’opinione pubblica. Sembra che la distanza fra l’idea e il dato reale sia una distanza abissale: il positivismo pratico di cui siamo permeati per cui se non tocco e non vedo un fatto non ne considero neppure l’esistenza sembra attutire e annebbiare la nostra percezione dei fenomeni fino a eliminarne ogni provocazione.
Solo una sferzata di realismo, l’occasione cioè di “vedere” che cosa succede quando una vita concepita viene stroncata brutalmente, può essere dirompente, in grado di suscitare un sussulto autentico, irrefrenabile: così documenta il film Unplanned. La storia vera di Abby Johnson, proiettato in anteprima a Roma lo scorso 8 luglio nella sala del Cinema Adriano stracolma, che ha riscosso enorme interesse. La vicenda mette in primo piano il cambiamento radicale della protagonista, una donna di successo attivista pro aborto giunta alla direzione della clinica abortiva più importante degli Stati Uniti, che casualmente si trova ad assistere all’interruzione di gravidanza di un feto di 13 settimane.
Le immagini nitide sul monitor dell’ecografo, il piedino che scalcia, il tentativo disperato di fuga del piccolo essere condannato a morte, braccato da un’esecuzione brutale che si consuma in pochi istanti di terrore prima che venga risucchiato dalla sonda e stritolato senza pietà… sono le immagini che non si cancelleranno più dalla sua mente. Sono le immagini di un orrore – realmente percepito e riproposto al pubblico – che restituiscono veri contorni a una realtà solitamente ammantata di illusorie conquiste di libertà.
Proprio il divario fra il dato reale e la sua mistificazione sembra suggerire il primo passo per un totale cambiamento di prospettiva: Abby apre gli occhi assistendo in diretta a un aborto, solo così si rende conto di quale diritto sia realmente in gioco e come venga pianificata e propagandata una prassi disumana con lo scopo di incrementare il business. “L’aborto – così si è espressa Abby Johnson – è l’uccisione di una vita innocente nel grembo della propria madre, luogo in cui, grande paradosso, un bambino dovrebbe maggiormente essere custodito”: il rivelarsi di questa verità inoppugnabile ha generato una conversione profonda nella sua mentalità e nel suo impegno sociale tanto da indurla rendere pubblica la sua storia.
Il grande pregio del film, diffuso dalla Dominus Production di Federica Picchi, che sarà nelle sale cinematografiche il 28 e 29 settembre, è di aver riaperto un dibattito risvegliando la coscienza su una “scelta” che ha implicazioni drammatiche, oggi per lo più taciute e censurate. E potrebbe forse prospettare l’occasione per uscire dal terreno ideologico lasciando spazio a un vissuto da indagare anche negli effetti più sfuggenti e difficilmente calcolabili. L’aborto è una ferita che spezza l’alleanza originaria del rapporto fra madre e figlio e il tal senso rappresenta la lacerazione più radicale, l’origine più profonda di un malessere crescente in contesti oggi sempre più permeati da solitudine, indifferenza, smarrimento. Il tradimento di un legame, che riguarda il concepimento stesso della relazione, insinua uno sfaldamento di quella propensione a riconoscere l’altro nella sua alterità che è alla base della convivenza umana.
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