Vittorino Andreoli, volto mediatico della psichiatria, pubblica un libro per Rizzoli dall’emblematico titolo – Homo incertus – che prende spunto dallo stato di incertezza che domina l’umanità, nella vita pubblica e in quella privata, per raccontare le paure e le ansie del nostro tempo. Lo fa con delicatezza e ironia, domandandosi se esistano punti possibili di ripartenza, individuandoli nel condurre una vita feriale, nascosta da tutti, nell’essere dei Nessuno che ricominciano a donarsi.
L’eloquio e la dinamica del libro sono eccezionali, anche l’analisi sembra al contempo fondata e ambiziosa, ma è l’innesco che Andreoli – al pari di tanti suoi colleghi – pone come antidoto al dramma del presente che sembra arduo e fuori luogo: lo psichiatra immagina, da un lato, che l’uomo conoscendo il proprio bene lo farà, dall’altro, che il bene sia frutto di una mera decisione personale, di chi si impegna per qualcosa.
Quello che sfugge ad Andreoli è che ormai l’incertezza sulla vita è diventata una questione affettiva, non un tema intellettivo: i ragazzi oggi sono incerti del fatto di essere amati.
Il vero tema, allora, è come si guarisce dall’incertezza dell’amore; se il problema è affettivo – insegnano gli avi – anche la soluzione dovrà essere affettiva: perché l’io riprenda sicurezza nella propria vita occorre anzitutto che, dentro quella vita, faccia la sua comparsa una presenza capace di calamitare tempo e cuore della persona, una presenza affettivamente significativa che renda solidi i passi di coloro che tornano a camminare.
Questo fatto non è pianificabile, non è programmabile o riproducibile, ma è il dialogo profondo che si instaura fra Dio e coloro che lo amano. Dall’incertezza del nostro tempo si esce guardando, si esce con la curiosità verso il presente, verso ciò che abita e salva questo nostro strano e imprevedibile presente.