Pochi anni prima che Neil Armstrong mettesse piede sulla luna gli uomini avevano smesso di guardarla. Come tutto ciò che è luminoso, la luna necessita del buio: chi non attraversa la notte, però, vivacchia di lampioncini, e non sa cosa sia quel chiarore fuori dalla finestra che ti punta agli occhi e ti strappa la pace del sonno, al pari delle ombre che ti assillano dentro. Negli anni Sessanta la notte cominciò a essere tanto illuminata da oscurarsi: «la notte durava venti secondi, e venti secondi il gnac». Questo l’incipit calviniano di un racconto di Marcovaldo: «il gnac era una parte della scritta pubblicitaria spaak-cognac sul tetto di fronte, che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando era accesa non si vedeva nient’altro. La luna improvvisamente sbiadiva, il cielo diventava uniformemente nero e piatto, le stelle perdevano il brillio».



Le luci delle nostre città, eclissandola parzialmente, iniziavano a confonderci: «“Quello è il Gran Carro, uno due tre quattro e lì il timone, quello è il Piccolo Carro, e la Stella Polare segna il Nord”. “E quell’altra, cosa segna?” “Quella segna ci. Ma non c’entra con le stelle. È l’ultima lettera della parola cognac […]”. “Papà, allora il cognac è calante? La ci ha la gobba a levante!” “Non c’entra, crescente o calante: è una scritta messa lì dalla ditta Spaak”. “E la luna che ditta l’ha messa?”». Forse cinquant’anni dopo non ci fa più nessun effetto: non dico l’uomo sulla luna, ma peggio ancora il consumismo che in quegli anni trasformava le notti e le prospettive, ma nella cui scia noi siamo nati al punto da essercene assuefatti, e pazienza se ci spegne il desiderio di arrivare più su.



Cinquecento anni fa Ludovico Ariosto aveva immaginato che Astolfo volasse lì in alto a caccia del senno perduto da Orlando. Ci trovò «ciò che si perde o per nostro diffetto, / o per colpa di tempo o di Fortuna: / ciò che si perde qui, là si raguna». Nell’Orlando furioso la luna è il posto in cui va a finire ciò che noi perdiamo sulla terra: «ricchezze», «fama», «infiniti prieghi e voti», «le lacrime e i sospiri degli amanti, / l’inutil tempo che si perde a giuoco, / e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, / vani disegni che non han mai loco, / i vani desidèri sono tanti, / che la più parte ingombran di quel loco: / ciò che in somma qua giù perdesti mai, / là su salendo ritrovar potrai».



Per arrivare così lontano, fino all’inarrivabile, ci vuole la malinconia che trema nel verbo più ricorrente della celebre scena ariostesca: “perdere”. Le luci che costellano le notti d’estate sono messe apposta per non farci vedere, per distrarci dal buio che rimane al fondo, dalla tristezza per quello che ci scappa dalle mani. Non sono matti quelli che immaginano, oltre le chiacchiere della gente e degli ombrelloni, un posto dove venga salvato quello che non riusciamo a trattenere, avvertendo una sorta di attrazione gravitazionale fra la sua ruga e i propri pensieri: «Ti che te me vedet che sun chì disperà perché g’ù de fa cun de la bröta gent che la me dis che sun mat perché te parli a ti ’nscì bela e rutunda, cun chèla rüga in frunt che la par un pensé» (Enzo Jannacci).

Quel lontano bagliore continua a magnetizzare la nostra incompiutezza. È lì, che non si fa toccare. Ci abbiamo messo piede una volta sola, e chissà quanto dovremo aspettare per tornarci ancora. Ma è bastata quella notte perché la vita non sia più la stessa, come racconta Cesare Pavese riscoprendo l’antico mito di Endimione, il ragazzo che si innamorò proprio di lei, Artemide, la luna: «Io dormivo una sera sul Latmo – era notte – mi ero attardato nel vagabondare, e seduto dormivo, contro un tronco. Mi risvegliai sotto la luna – nel sogno ebbi un brivido al pensiero ch’ero là, nella radura – e la vidi. La vidi che mi guardava, con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro. Io non lo seppi allora, non lo sapevo l’indomani, ma ero già cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava, della radura, del monte». Chi è stato preso da certi occhi grandi non può dimenticarlo più. Ogni notte senza luna gli fa pensare a lei, perché quegli occhi hanno cambiato per sempre i suoi: «Dal mio letto oramai tendo l’udito, e sto pronto a balzare, e ho questi occhi, questi occhi, come di chi fissa nel buio». Dal buio, infatti, potrebbe sbucare lei, «l’intoccabile»: «abbiamo parlato, parlato, e io fingevo di dormire, sempre, tutte le notti, e non toccavo la sua mano, come non si tocca la leonessa o l’acqua verde dello stagno, o la cosa che è più nostra e portiamo nel cuore»  (La belva).

Per quanto ne parliamo, non si tocca mai: alterna le sue fasi, spesso coperta da nuvole passeggere. Una cosa non toccata si chiama, latineggiando un po’, «intatta», come l’aggettivo che le attribuiva il più lunare di tutti i poeti: «intatta luna», le sussurrava Leopardi prima di domandarle, nel Canto notturno, «il perché delle cose». Qualcuno, infatti, da qualche parte dell’universo, dovrà pur sapere «questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia». L’uomo sospira e non sa perché: e nessuno si azzardi a spiegarglielo, perché nessuno può. Nessuno di questo mondo.

Ad azionare reattori che di solito rimangono spenti ci ha pensato il Caligola di Camus: «Questo mondo così come è fatto non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità, insomma di qualcosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo». Non c’è bisogno più urgente: aiutarsi «nell’impossibile», a non smettere di volere la luna. Non servono navicelle spaziali, ma piuttosto buio. Il buio del cuore fa paura come quello della miniera, ma a volte capita che qualche anima poetica – «il poeta è un minatore», sosteneva Giorgio Caproni – riesca a toccare l’intoccabile, a metter piede dove nessuno lo mette mai, a guardare quello che nessuno guarda, a stupirsi di quello che ha stancato tutti, come accadde al minatore pirandelliano Ciàula: «Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».