Fuoco e terra. Sono questi i due elementi naturali ai quali gli abitanti di Catania associano le proprie ancestrali paure, spesso tristemente divenute realtà sotto forma di un ardente e sinistramente sinuoso flusso di lava, o di un tremore così repentino da stringere il cuore in una morsa impossibile da spezzare. È una storia secolare, per certi versi ormai familiare, questo precario equilibrio tra speranza e sospensione, tra rassegnazione e irriducibile istinto di sopravvivenza.



Non ci si abitua mai del tutto, nemmeno quando, letteralmente, i tuoi passi si snodano su una bomba ad orologeria che, prima o poi, verrà a ricordarti quanto è arrogante e pretenzioso progettarsi al di là dell’attimo. Ma ci si adatta comunque, e si impara che anche dalle spiacevoli consuetudini si può diventare migliori, programmando, prevenendo, prevedendo. E, tuttavia, non basta. Ci sarà sempre qualcosa capace di sfuggire alla perizia umana. Ma soprattutto alla comprensione.



A Catania, negli ultimi tre giorni, è successo esattamente questo. È successo che, per una volta, il disastro è piovuto dal cielo. È successo che l’incessante suono della pioggia, bussando sulle finestre, sulle ringhiere, sui tetti, si trasformasse progressivamente in un ruggito paralizzante, e che gli ululati del vento appesantissero l’atmosfera di una carica spettrale. L’acqua – così onnipresente nell’assetto urbano della città e nell’immaginario del suo popolo – e l’aria hanno, insomma, dismesso la loro maschera confortante, per scagliarsi con una violenza senza precedenti sui malcapitati che giurano di essere scampati, chi issandosi a fatica sul tettuccio della propria auto, chi utilizzando per l’occasione mobili e scaffali come base per una disperata arrampicata, ad una piena che ha raggiunto un’altezza di un metro e cinquanta centimetri.



Nel giro di poche ore, la città dell’Elefante, così avvezza a fronteggiare cataclismi di ogni sorta, si è ritrovata spaventosamente inerte, sommersa da cascate e laghi che l’hanno immediatamente catapultata in un tempo che mai si credeva sarebbe potuto ritornare: basti pensare al fiume che scorre sotterraneo alla Pescheria, l’Amenano, che ha visto il suo livello alzarsi a tal punto da tornare visibile in superficie, o ai cosiddetti “Archi della Marina”, la cui successione dà vita al viadotto ferroviario di pietra lavica che collega Catania e Siracusa e nuovamente inondati come ad inizio ‘900.

Increduli abbiamo assistito a scene drammatiche, sperando che alla fine ci saremmo svegliati o avremmo avuto la possibilità di spegnere il televisore. Dal centro alla periferia, dal comune alla provincia, alcune strade quotidianamente battute sono letteralmente sparite, mentre altre sono così stravolte da risultare pressoché irriconoscibili: al loro posto, campeggiano distese di terra e ciottoli, di macerie trasportate da chissà dove. Su di esse giacciono laconicamente automobili, alberi incagliati tra i marciapiedi e le serrande di abitazioni ormai inagibili, bancarelle e frigoriferi strappati alla loro storica collocazione dei mercati rionali, cassonetti rivoltati e, in alcuni casi, addirittura ancora galleggianti, e persino delle scarpe.

“In poche ore è caduta una quantità di acqua pari a quella che solitamente si accumula in sei mesi, forse anche in un anno”. Fonti autorevoli continuano a ripeterlo come un mantra, quasi servisse terapeuticamente a razionalizzare l’accaduto. Ma niente può vagamente ricondurre questa Apocalisse a sfondo etneo ad una dimensione vagamente reale. Non quando, proprio nella giornata della tregua, viene preannunciata un’altra due giorni di passione. “Gli effetti potranno essere ancora peggiori di quelli che ci siamo lasciati alle spalle”. Due morti, terreni dissodati, scuole danneggiate, vigili del fuoco con remi e gommoni, piazze trasformate in paludi: davvero esiste qualcosa che va al di là di ciò?

Il rumore del fango incagliato nelle ruote delle automobili stride con la flebile luce che prova a fare capolino. Catania è un deserto a prova di viandante. Trovare parole che reggano l’urto di questo sconvolgimento, che sappiano esprimere la ferita di un’anima divisa tra ciò che è stato e ciò che si preannuncia, è un’impresa davvero ardua, persino per il più loquace tra gli oratori.

Restano immagini: quella di un tombino che, a distanza di diverse ore dal picco delle piogge, non è in grado di smaltire l’acqua in eccesso. Il suo zampillio lo fa sembrare una fontana a cielo aperto. Avrebbe un che di paradossalmente poetico, se non fosse che lo sciabordio rimbomba in un orizzonte mai così vuoto. Se non fosse che la sua involontaria e goffa bellezza è frutto della devastazione. Se non fosse che la città, distrutta e per sette volte rinata, non ha il coraggio di scoprire cosa l’aspetta da qui alle prossime 48 ore.

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