Quattro persone a bordo di un’ambulanza, un medico, due infermieri e un paziente, sono morti nello scontro tutto da chiarire con un pulmino che trasportava alcuni bimbi e ragazzi di Grottammare verso un’esperienza di fede e di condivisione in questo tempo natalizio. L’incidente è avvenuto all’altezza di Urbino, i bambini stanno tutti bene, mentre si registra solo un grande choc per i due autisti protagonisti della vicenda. Alla magistratura il compito di comprendere che cosa sia davvero accaduto, alla società – come sempre in questi casi – l’onere del cordoglio e del supporto a chi rimane.
Tuttavia, c’è chi si spinge oltre. “Ancora tristissime morti sul lavoro – dichiara in una nota Gianluca Giuliano, segretario nazionale Ugl –, che riguardano tre operatori sanitari che perdono la vita mentre erano impegnati nella loro missione di assistenza. In attesa degli esiti sui rilievi effettuati, non possiamo che chiedere il massimo rigore nel rispetto delle misure di sicurezza e dei controlli sui mezzi utilizzati nei soccorsi”.
Commenti come questi non sono di per sé sbagliati – il tema dei morti sul lavoro esiste ed è fondamentale – ma fanno completamente fuori quello che è accaduto, il dolore. La dinamica è talmente emblematica che merita una riflessione che, è bene dirlo, vuole essere un atto di rispetto e di cordoglio per quanto avvenuto a Urbino.
C’è una mentalità disumana che pervade la lettura della cronaca del nostro Paese, una mentalità che anzitutto si chiede sempre il nome del possibile colpevole di quanto avviene e poi si adopera per legare quanto accade ad una stortura del sistema, come se l’uomo non fosse libero, come se l’uomo non potesse – semplicemente e tragicamente – compiere il male. Il male esiste e non è ciò che impedisce la legge, ma è qualcosa di molto più ampio e di molto più radicale: il male è sempre una mancata serietà con la vita, con il reale, al punto che si può definire “male” la nostra incapacità di stare e di abbracciare la realtà fino in fondo. È successo ad Eva nel giardino dell’Eden, succede a noi rispetto alle ferite che abbiamo, alla storia che ci descrive, alle domande che ci portiamo nel cuore: scappiamo dalla realtà, riduciamo tutto quello che c’è ad un elemento più semplice, meno impegnativo per la ragione e per il cuore.
È difficilissimo stare davanti alla morte di quattro persone in quelle condizioni, è più facile parlare delle morti sul posto di lavoro: siccome non siamo capaci di ascoltare quel dolore, allora lo riduciamo, lo eliminiamo. E parliamo d’altro. Soffrire non è semplice, ma il tempo di Natale ci mostra che la sofferenza non è un accidente casuale della storia, bensì un fatto che può essere abbracciato, curato, guarito. La profezia del bimbo avvolto in fasce, perché nelle fasce sarà avvolto dopo la Sua crocifissione, svela che non siamo mai alle prese con un destino cieco e baro, ma con una proposta tutta da verificare: che non esista morte, che non esista fine, che non esista dolore che non possa essere attraversato, guadagnando a chi accetta di fare tutta la strada la fioritura della vita.
Non si torna indietro da quanto accaduto a Urbino. Ma proprio perché non si torna mai indietro davanti alla morte, esiste sempre una possibilità: andare avanti, guardare fino alla fine questa nostra vita, questo nostro strazio. E scoprire in ogni fine l’alba di un inizio inatteso. Nella morte di Urbino, e nelle tragedie di tutti i giorni, la vera sfida è il vagito di Betlemme.
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