Ieri il Presidente Biden ha deciso di bloccare la vendita di US Steel a Nippon Steel tenendo fede all’impegno di mantenere la proprietà dello storico produttore d’acciaio americano in mano domestica. Non è servito attendere l’Amministrazione Trump e le sue politiche protezionistiche; per Biden “serve che le principali società statunitensi abbiano la maggioranza della capacità di produzione d’acciaio americano per continuare la battaglia nel nome degli interessi nazionali americani”.
Inutile chiedersi quali siano esattamente le ragioni che hanno spinto il Presidente uscente a prendere questa decisione; le indagini del Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti (Cfius) non sono pubbliche e spesso si basano su informazioni secretate. L’ultima volta che un Presidente americano ha usato il comitato per bloccare un’acquisizione è stato a maggio quando è stato ordinato a una società di criptovalute cinese di vendere un lotto di terra vicino a una base dell’aeronautica.
Nel caso di US Steel l’acquirente è invece una società di un Paese, il Giappone, che è da decenni un alleato leale degli Stati Uniti. Non è bastata né la carta di identità, né gli impegni del colosso asiatico per difendere gli stabilimenti americani, né sono valsi i timori che la società americana possa oggi trovarsi in una condizione più complicata per fare investimenti. A valle della decisione, Nippon Steel ha deciso di portare in tribunale il Governo americano con una mossa che segnala che la posta in gioco è molto più alta di una partita tra società private. È lecito chiedersi, nel caso della vicenda di Nippon Steel, perché i risparmi giapponesi debbano continuare a essere investiti in dollari e in America in uno scenario in cui si impedisce alle società giapponesi di fare acquisti negli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti sono il consumatore di ultima istanza in un mondo che fino a qualche anno fa aveva deciso di concentrare la produzione in Asia e in particolare in Cina e in cui merci e capitali si spostavano liberamente. Oggi, invece, tanto più alla vigilia dei dazi americani, questo paradigma si frantuma. Ieri il ministero del Commercio cinese ha proposto restrizioni alle esportazioni su alcune tecnologie necessarie alle componenti delle batterie o per lavorare minerali come il litio e il gallio. In questo nuovo mondo non c’è più posto per economie che puntano tutto su surplus commerciali e deflazione interna come l’Unione europea e in parte come il Giappone.
Rimpatriare capacità produttiva in “Occidente” richiede anni e investimenti e sposta l’equilibrio tra domanda e offerta di risparmi; in ogni caso i beni prodotti in “Occidente” costano di più di quelli prodotti in Cina anche ammettendo colossali investimenti in automazione che mettano al riparo i produttori occidentali dal maggiore costo del lavoro. In questo nuovo paradigma salgono i prezzi dei beni e “dei risparmi” sotto forma di tassi di interesse. Nel quadro attuale, tra l’altro, i risparmi degli europei si muovono verso gli Stati Uniti attratti da rendimenti maggiori e da una crescita economica che è un multiplo di quella europea.
Siamo in una fase difficile da leggere perché il nuovo corso americano implica prezzi più alti internamente e mette in difficoltà i Paesi esportatori. Da qui in avanti molto dipenderà dall’esito delle trattative commerciali della nuova Amministrazione americana in cui, si presume, si vorrà evitare una guerra commerciale disordinata. Dal punto di vista americano diventano chiari i motivi della fine di qualsiasi ipotesi di transizione green in salsa europea. C’è un limite allo stress che si può imporre alle economie e alla società e quindi tutto consiglia di tenere i costi energetici ai minimi e di evitare qualsiasi avventura. L’Europa invece non sembra aver ancora capito cosa sia successo o forse pensa di cavarsela con un aggiustamento marginale.
Tre giorni prima di Natale il ministro dell’Energia del Qatar, ormai fornitore di gas chiave dell’Europa, dichiarava al Financial Times di essere pronto a fermare le esportazioni di gas verso l’Unione. Il ministro si riferiva a una Direttiva europea approvata a luglio in cui l’Europa si riserva il diritto di imporre multe fino al 5% dei ricavi in caso di violazione dei diritti umani o di danni ambientali; come se non bastasse l’attuale crisi energetica. I Paesi importatori di gas forse preferirebbero un'”altra Europa” o forse si sentirebbero più tranquilli se non fossero esposti a questi rischi; non ci sono eventi molto peggiori di una crisi energetica senza rimedio.
Il trattamento riservato a Nippon Steel intanto è indicativo di quale sia la fase attuale e del fatto che non si faranno sconti; neanche agli alleati più fedeli. Nemmeno si può sperare di resistere quattro anni in attesa, forse, di una nuova Amministrazione democratica nel 2029.
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